Le coop, il “bene collettivo”, lo “sterco del diavolo” ed il capitalismo più o meno perseguito

robocoopBisognerebbe intendersi su quel “bene collettivo” che rappresentano le coop sul territorio reggiano. Se per bene collettivo intendiamo qualcosa di molto simile all’immagine più sbandierata e meno perseguita dell’Italia tutta, il “bene comune”, siamo lontani dal verosimile. Se invece lo accettiamo come “senso comune” perché indiscutibilmente esse hanno rappresentato per decenni un modello particolarmente fiorente a livello locale di sviluppo economico coniugato il più possibile ad un’equa redistribuzione delle risorse e come tale da salvaguardare non solo perché rappresenta un’esperienza socio-economica dop ma anche perché il suo destino si interseca con quello di decine di migliaia di soci e prestatori, allora è fisiologico che mediaticamente, almeno alle nostre latitudini, faccia scalpore. Più scalpore il crollo di Unieco per intenderci rispetto a quello, per utilizzare un esempio dettato dalla contemporaneità della cronaca, della ancor più privata Artoni. Ed è in qualche modo inevitabile che se ne parli di più.

Ciò detto, si deve essere consapevoli che la lente morale (che non necessariamente coincide né con quella reale, come abbiamo detto, né con quella legale come vedremo) sotto cui analizziamo i recenti fatti cooperativi e proponiamo le conseguenti soluzioni, potrebbe anche rappresentare un salto all’indietro rispetto alla complessità con cui andrebbero affrontati i problemi, come questo appunto, che segnano il passaggio da una generazione all’altra, da uno schema di sviluppo ad un altro, per evitare di incorrere nei tanti ed evidenti errori del passato.

Esiste infatti un ulteriore rischio, una volta individuati gli eventuali responsabili ed addossate le eventuali colpe del crac, che potrebbe aggiungere beffa al danno: quello di far credere che i soldi che le centinaia e centinaia di persone hanno investito nel capitale sociale delle coop più o meno in bilico, debba e addirittura possa essere restituito in toto. Che sia giusto così e che i denari saltino sempre e comunque fuori, senza che nessun altro ne abbia a patire, a sua volta, un’ingiustizia. In questo senso, archiviate le più diplomatiche e di proforma dichiarazioni di generiche solidarietà e vicinanza della politica, e le grida allo scandalo di chi cavalca l’onda dello sdegno sul refrain dell’intero sistema che avrebbe munto per anni i soldi di tutti a beneficio dei pochi, non appare un caso che le posizioni del sindacato (almeno uno) e quelle della Chiesa (almeno nei suoi vertici) sembrino quasi coincidere.

Coincidere nella visione (dal retrogusto iconografico medievale) del denaro come borsa appesa al collo del ricco e che inevitabilmente lo trascina giù, giù all’Inferno. Riproponendo, di certo in buona fede, quella divisione tra carità e mercato (all’insegna della pecunia maledetta) caratteristica dei periodi storici in cui le società non sono ancora arrivate ad emanciparsi dal sistema di valori propri della religione e delle declinazioni pauperistiche come uniche in grado di garantire salvezza in Cielo e tranquillità in terra.

Purtroppo però, a volte è impopolare sottolineare l’ovvio, anche le coop agiscono in regime di libera concorrenza (seppur con minor imposizione fiscale), cioè sono soggette al fallimento. Se da una parte infatti è sparito il 65-70% del mercato delle costruzioni, dall’altro sono sopravvissute solo aziende molto “leggere”, con poco personale. Alcune praticamente sono delle finanziarie, che decentrano e appaltano i lavori a imprese esterne. E’ un settore, quello delle costruzioni e delle infrastrutture, che ha bisogno di finanza, perché spesso almeno parte dei costi dei lavori vanno anticipati dalle aziende stesse prima di essere pagate (da qui il costante indebitamento). Le coop di costruzioni hanno anche dovuto subire lo smacco della crisi delle banche che le finanziavano.

Le coop di Reggio hanno rimborsato 24 milioni di euro ai soci di Orion, CMR e Di Vittorio di Parma. Coop Alleanza ha rimborsato 14 milioni ai soci di Coop Carnica in Friuli. In più ha comprato per 80 milioni i negozi di Coop Operaie in Friuli e per 24 la sede della Cormo, due investimenti fuori mercato realizzati di fatto per aiutare soci e dipendenti delle due cooperative. Il fondo da cui è stato attinto questo pacco di denaro, è lo stesso che un altrettanto elevato novero di soci e prestatori ha contribuito a forgiare coi suoi risparmi.

Fino a prova contraria, i soci delle coop ne sono anche i comproprietari, votano il bilancio (una testa, un voto) e scelgono i vertici, dunque sono responsabili del loro destino. I prestatori “prestano” appunto denaro ad un’impresa, non acquistano Bot. Insomma la materia è estremamente complessa (oltreché delicata per la perdita dei loro risparmi da parte di un elevatissimo numero di persone) e si presta facilmente a strumentalizzazioni di varia natura (che, ben inteso hanno un loro fondo di verità) che poco aiutano però a far recuperare i denari a chi rischia di vederli svanire.

In ultima analisi, non è vero che il capitombolo (di una parte importante delle) coop sia il risultato di una condotta eccessivamente “capitalistica” calata su un’idea di mutualità perduta (o fagocitata); è forse vero il suo contrario. Le scelte (anche dolorose) di ristrutturazione e “di mercato” avrebbero dovuto essere compiute una decina d’anni fa. Probabilmente ora non avremmo questa ammontare di capitale bruciato ed il lavoro (questo sì che anche attualmente il maxi-sistema coop dovrebbe fare il possibile per cercare di riassorbire pressoché integralmente) sarebbe meno incerto per migliaia di persone che hanno creduto ad un sistema diverso (ancorché parallelo) di lavoro e di guadagno.

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