Lavoro, Costituzione e le responsabilità della politica

Ugo De Siervo: mettere in pratica il diritto dovere previsto dalla Carta fondamentale

L’ex presidente della Corte Costizionale Ugo De Siervo ha messo sul tavolo una riflessione che dà conto, in tempi in cui si assiste al progressivo degrado del lavoro, del suo ruolo fondativo, dentro la Costituzione repubblicana.

Il primo dato oggettivo, come spiega De Siervo, “è il fatto che la Carta contiene una decina di articoli in cui si disciplina, in modo anche molto analitico, preciso e impegnativo, il lavoro dell’uomo. Per citare un protagonista raramente citato, Ruini, un mazziniano presidente del Comitato dei Settantacinque dell’Assemblea Costituente, ricordiamo che vedendo ciò che stava emergendo nel dibattito delle commissioni che avevano predisposto il progetto di Costituzione, disse: “Il lavoro si pone come forza propulsiva e dirigente in una società che tende ad essere di liberi e di eguali”. Una frase breve , in cui si condensa il senso forte della scelta del parlare del lavoro”.

Un parlare del lavoro, che non è, spiega De Siervo nel suo contributo all’appuntamento che si è tenuto sabato 7 ottobre presso la sede di Baker Hughes, nella vecchia sede della Nuova Pignone, in occasione della mostra su Giorgio La Pira organizzata dalla Fondazione omonima, “un parlare del lavoro come attività, ma trova il suo senso nel dare spazio nella società della Repubblica democratica, ai lavoratori. Tant’è vero che si discusse perfino di parlare, nell’art.1, di “Repubblica dei lavoratori”, su spinta soprattutto di Togliatti e di altri appartenenti all’area delle sinistre.La proposta fu respinta dopo vari ondeggiamenti (persino Moro dette la disponibilità a votarla), per il peso che questa formulazione linguistica aveva avuto nelle costtuzioni del Centro e dell’Est Europa, in cui questa locuzione era stata poi interpretata come privilegiante, in termini politici, dei partiti che potevano rivendicare il rapporto con le forze sindacali”.

Si scelse così l’altra formula, la “Repubblica fondata sul lavoro”. “La definizione adottata fu commentata da Fanfani, che poi propose il testo ripulito: “Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che possa essere fondata sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui, e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è diritto a un tempo per ogni uomo di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere, d contribuire al bene delal comunità nazionale”.

Si tratta cioè dell’affermazione del dovere di gni uomo, “di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali. Una della decina di norme sul lavoro, l’art. 4 secondo comma, definisce che “il cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità ela propria scelta, un’attività e una funzione che concorre al progresso materiale o spirituale della società”. I Costituenti così chiarivano che anche i poeti, le persone dedite alla riflessione filosofica o religiosa, lavorano. E’ una loro scelta”.

Il nocciolo vero, secondo il Costituente, è che “tutti devono dare il loro contributo alla vita collettiva. Allora, se ci ricordiamo cosa c’è nella Costituzione repubblicana, che spesso si cita globalmente, troviamo che nell’art. 1-2-3, ovvero nelle norme di entrata, la chiave ideologica della Costituzione italiana, si dice che il fondamento della democrazia, sono il lavoro, la socialità, la spinta all’eguaglianza. Sono norme che affermano la garanzia della pari dignità sociale, che è altra cosa ancora: tutti, lavoratori, non lavoratori, disoccupati, tutti, hanno pari dignità sociale. Non sono quindi solo vietati i nuovi titoli nobiliari, ma tutti in positivo, valgono”.

Passando all’art.4 Cost., “si trova l’affermazione del diritto-dovere di lavorare. Soprattutto, c’è scritto che la Repubblica dovrebbe garanitre le condizioni che rendono effettivo questo diritto. E’ una parola naturalmente, e qui si coglie intero lo scarto fra quello che si scrive e quello che il Parlamento riesce a garantire. L’art. 35 è posto a tutela del lavoro, cosa importantissima, all’art. 36 troviamo il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso “suffiente ad assicurare a se’ e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. E’ di poche settimane fa una sentenza della Cassazione la 2023, che afferma finalmente in via giurisprdenziale, questo principio. finora si era andati avanti con tensioni e controtensioni, contrattazioni e non contrattazioni”.

La tutela delle donne fu punto importante, reso autonomo nell’art. 37, insieme alla tutela del lavoro dei minori, mentre l’art. 38 riguarda la tutela degli inabili e degli nfortunati, mentre il 39 e 40 riguardano l’organizzazione sindacale e il diritto di sciopero, mentre il 46 riguarda, com’è noto, la partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale.

Si tratta dunque di una Costituzione “che scrive molto e si impegna molto sul lavoro. Molto diversa dallo Statuto Albertino, ovviamente. L’Italia ha avuto due Costituzioni. Lo Statuto Albertino giunge ormai fatto a pezzi , al 1946. E’ necessari ricordarsi che Carlo Albeto d Savoia, nel presentare la concessione dello Statuto, parla dei “nostri amatissimi sudditi”, di lavoro, non se ne parla; prevede una Camera elettiva, con un rinvio talmente libero al legislatore, che decise di limitare il diritto elettorale attivo, all’1,8% dei maschi maggiorenni”.

Tutto è cambiato, nel 1948, quando entra in vigore la Costituzione Repubblicana, dunque non ci sono più problemi? “Non fu affatto così – continua De Siervo – continuano infatti a vivere, nel tessuto normativo italiano, molteplici normative arcaiche, intepretazioni giurisprudenziali difformi molto resistenti. Pensiamo solo che, negli anni ’60, le donne non potevano accedere al concorso per magistratura, perché si riteneva fossero troppo emotive”. Cose di cui ci siamo dimenticati, ma “ci sono volute decine di anni per affermare la libertà di partecipazione alle selezioni pubbliche “.

Soprattutto era difficilissimo calare ciò che di progressista era stato scritto, riguardo alle norme sul lavoro, nella Costituzione Repubblicana, dentro il pesantissimo contesto storico del 1948. “Muro contro muro, gravissima condizione sociale ed economica del Paese, in cui la disoccupazione era una realtà pesantissima, in una fase in cui, questo si dimentica spesso, c’erano flussi migratori impressionanti dalle campagne alle città. Non caso, La Pira nel maggio 1951 scrive “L’attesa della povera gente” e dopo le riposte non tutte prevalentemente garbate che ricevette, scrisse, nel luglio, “Difesa della povera gente”. Soprattutto “appare molto significativo e realistico” quanto si può ricavare dagli atti di un congresso dei giuristi cattolici italiani tenutosi nel novembre 1951, dove, da pochi mesi sindaco, La Pira si dice “molto rattristato e reso cupo dalla situazione in cui vivo, una città ferita dalla guerra, coinvolta da molteplici crisi aziendali” e si dichiara “stanco e preoccupato per gli ottomila iscritti nelle liste di miserabilità”.

La vicenda del salvataggio della Nuova Pignone, episodio in cui La Pira si impegnò fino allo spasimo, divenne o sarebbe dovuta divenire uno dei capisaldi per le soluzioni delle varie crisi aziendali che con veloce ricorrenza addentarono il tessuto industriale dei tempi e non solo, come dimostrano le ultime vicende nazionali, dal Sud al Centro del Paese fino al Nord. La forte impostazione “lavoristica” della Costituzine Repubbicana tuttavia aveva approntato una salda successione di principi che avrebbero dovuto tutelare il lavoro come prezioso caposaldo di democrazia.

Un elemento che sottolinea De Siervo è il fatto che il salvataggio della Nuova Pignone avviene attraverso uno degli strumenti che lo stesso La Pira aveva ipotizzato nel saggio “Difesa della povera gente”, ovvero l’intervento dello Stato.

“Da questo credo si debba trarre una lezione – conclude De Siervo – anche le migliori disposizioni costituzionali non esentano minimamente le classi politiche dalla loro traduzione in pratica, o dal tentativo della loro traduzione in pratica. Anzi, la responsabilità dei politici si accresce ove le buone disposizioni costituzionali siano lasciate inattuate”, correndo il rischio che si diffonda nell’opinione pubblica, “la convinzione che siano le disposizioni costituzionali ad essere inadeguate, non la classe politica che non le ha tradotte in pratica”.

In foto: Ugo De Siervo

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