Firenze – Lavoro, se l’occupazione cresce, come testimoniano i dati dell’Istat (“dal lato dell’offerta di lavoro, nel terzo trimestre del 2017 l’occupazione presenta una nuova crescita congiunturale (+79 mila, 0,3%) dovuta all’ulteriore aumento dei dipendenti (+101 mila, +0,6%), soltanto nella componente a tempo determinato a fronte della stabilità del tempo indeterminato”), crescono tuttavia anche due frutti avvelenati: da un lato, l’area del “disagio”, dall’altro il lavoro a termine. Due importanti zavorre che rischiano di ridurre la positività dei dati della crescita. Gli ultimi dati diffusi sulla situazione del mondo del lavoro in Italia sono quelli della ricerca della Fondazione di Vittorio della Cgil, che rielabora le statistiche sull’area del disagio nell’occupazione (occupati in età 15-64 anni con lavoro temporaneo o a tempo parziale perché non hanno trovato un’occupazione stabile o a tempo pieno).
Così, emerge, che “nel primo semestre 2017 l’area del disagio contava 4 milioni 492 mila persone (+45,5% rispetto al primo semestre 2007, pari a +1 milione e 400 mila persone), il numero più alto degli ultimi dieci anni”. Si conferma la divaricazione fra il Mezzogiorno rispetto al Nord: il tasso di disagio è, pari, nel Mezzogiorno, al 23,9%, rispetto al Nord, dove arriva al 17,7%. Ancora, si segnala più alto nell’occupazione femminile (26,9%) rispetto a quella maschile (15,2%). Continua a crescere anche la distanza tra generazioni, come si legge nella nota della Fondazione: nella fascia 15-24 anni il tasso di disagio è del 60,7% (+21 punti rispetto a dieci anni prima); segue la classe dei giovani-adulti (25-34 anni) con un tasso vicino al 32% (era il 19% nel 2007). Anche la forbice tra italiani e stranieri si allarga: il disagio coinvolge un lavoratore straniero su tre (18,4% dei cittadini italiani).
Del resto, i dati riportati dalla Fondazione Di Vittorio sono in perfetta sintonia con quelli resi noti dall’Istat circa la condizione socio-economica delle famiglie italiane. E’ vero che il livello del reddito nazionale cresce, ma quasi solo a favore del quinto più ricco della popolazione “trainata – come spiega la nota Istat – dal sensibile incremento della fascia alta dei redditi da lavoro autonomo, in ripresa ciclica dopo diversi anni di flessione pronunciata. Quindi, esclusi gli affitti figurativi, si stima che il rapporto tra il reddito equivalente totale del 20% più ricco e quello del 20% più povero sia aumentato da 5,8 a 6,3”.
Così, nonostante il livello del reddito medio italiano cresca dell’1,7% (in termini d’acquisto, la crescita in termini nominali è dell’1,8% rispetto al 2014), nel 2016 si stima che “il 30,0% delle persone residenti in Italia sia a rischio di povertà o esclusione sociale, registrando un peggioramento rispetto all’anno precedente quando tale quota era pari al 28,7%”. Dunque, in aumento sono gli individui a rischio povertà (20,6%, dal 19,9%), ma anche “la quota di quanti vivono in famiglie gravemente deprivate (12,1% da 11,5%), così come quella delle persone che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (12,8%, da 11,7%)”. Quanto alle percentuali sul rischio povertà ed esclusione sociali a livello territoriale, è il Mezzogiorno, come sempre, a pagare il pegno più gravoso: si arriva al 46,9% del rischio, percentuale che scende al 21 al Nord-Ovest, al 17,1% al Nord-Est, e al 25,1% al Centro. Anche se, in ambedue le aree, in crescita.
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