Firenze – Una mostra “Pietre” di Renato Ranaldi presso la Galleria il Ponte a Firenze, aperta fino al 20 settembre 2021, ha ispirato un incontro con l’artista per conoscere e approfondire il suo lavoro.
Renato Ranaldi, lei è fiorentino?
“Sono nato a Firenze e non ho saputo andarmene da questa città”.
Questa città le ha permesso di crescere artisticamente?
“È una domanda che mi sono posto molte volte. Probabilmente avrei fatto quello che ho fatto in qualsiasi luogo. Quello che ho prodotto in tutti questi anni è dovuto alla mia tensione originaria. Ho coltivato questa dimensione. Chiamiamola creatività. Ma tornando a Firenze la città mi ha regalato una certa forma di estraniazione; è una città ferita, è noto, del resto come tutte le città d’arte. Firenze particolarmente, sembra viva una specie di sordità”.
Una sordità che viene da lontano…
“Credo che i fiorentini si siano messi al sicuro con l’idea del loro retaggio storico quindi sembra che non debbano dimostrare nient’altro che la loro appartenenza a un passato. Sono pigri: hanno avuto Michelangelo: basta e avanza. Tutto il resto non serve a dimostrare, non serve a chiarire…”.
Forse per questo lei non è cresciuto come artista del mondo, non relegato in un contesto locale. Nella sua arte non ci sono particolari legami con il territorio…
“La fiorentinità forse è espressa in una specie di funzione del ‘bastian contrario’ che metto in atto di fronte ai linguaggi di uso corrente. Credo che occorrano dei segni che dichiarino non appartenenza ai modi correnti che, ovviamente, producono confezioni: una forma confezionata non è arte. Credo di potere affermare di fronte al mio lavoro, che tutto quello che riflette una modalità che mette al sicuro dal punto di vista linguistico, non è arte: è bravura. È consegnarsi alla capacità e alla tecnica. È un’aspirazione al plauso e al successo come molti artisti abili, intelligenti, veloci di testa, eruditi, che ho conosciuto. Quando dimostri con un segno la capacità di muoverti in mezzo alle tecniche e a modalità correnti e dimostri apertamente quell’inclinazione, non stai affermando, stai dimostrando. Se non affermi, stai inscenando abilità. Ma dimostrare questa, porta inevitabilmente alla confezione. E la confezione non è arte”.
Tornando a Firenze e al suo lavoro. Forse è stato stimolato da questa città, che non si confronta con espressioni artistiche contemporanee e non stimola a ricercare…
“Sento che Firenze è sottoposta a una pressione in un certo senso modaiola. Le sue glorie sono, naturalmente, il Rinascimento e la grande tradizione. Ha sempre avuto la tendenza a proiettarsi e rappresentarsi attraverso la moda. Pensa a tutte quelle manifestazioni dove emergono i valori attribuiti dai mercati. È come se la società dell’arte chiedesse agli artisti di stare al mondo attraverso le espressioni dell’effimero. L’effimero può essere una qualità può essere generato da un’idea di sottrazione, da una ragione filosofica”.
Firenze potrebbe fare di più?
“Potrebbe raccontarsi che è una piccola città, che ha avuto una fortuna letteraria che l’ha fatta diventare una città importante. Non è stato solo a Firenze il Rinascimento, era nell’aria di quel tempo in tutta Europa. Qui si sono arrogati certi diritti relativi alla sua nascita. Certo ha avuto grandi architetti, ma c’erano ovunque. Il bisogno di dichiararsi il primo della classe suscita un certo ridicolo”.
La sua arte è fuori dagli schemi consueti, ha vissuto autonomia rispetto alle tendenze del momento…
“Ho fatto un percorso molto comune a tanti altri artisti. Accademia di Belle Arti: insegnamenti che hanno condizionato, a quell’età si pensa che debbano esserci dei maestri. Poi ti accorgi che il maestro del quale hai bisogno te lo devi inventare. Quelli che conoscono il mio lavoro dicono che non sono etichettabile. Tutte le volte che mi sono imbattuto in qualche modalità linguistica corrente l’ho rifiutata. Non ho voluto adottarla. Allontanandomi da questi modi ho dato voce a una tensione che ha prodotto certe immagini. I geni del passato della grande tradizione hanno favorito la prosopopea di essere artista quale eroe solitario. Forse ho aderito a questa immagine. Sono andato incontro a un destino di estraneazione che, per una questione caratteriale, non ho dovuto forzare. Non ho preso una posizione di carattere etico o filosofico. Mi sono ritrovato a fare i conti con me stesso senza prendere una posizione dovuta a un’etica, non c’è stata condivisione dei segni prodotti dagli artisti. E questo potrebbe essere un difetto. Il guaio è che uno li coltiva i difetti, più va avanti più coltiva finché non diventano cifra. Allora la distanza affiancata all’idea solitaria diventano stile: una benedizione”.
Forse la solitudine è una necessità per poter creare… Anche con la scrittura?
“Sai, scrivendo uno proietta fuori”.
Sempre in un rapporto con se stesso…
“Quando scrivo, io proietto sempre la stessa cosa. Scrivo pretendendo di chiarire le dinamiche del mio lavoro. È un sogno. È una cosa che mi sono messo in testa ma probabilmente è difficile da fare capire: sono dinamiche del profondo. L’intenzione sarebbe di far intendere quel nucleo di tensioni che genera un gesto. Può essere una cosa scomoda da vivere e da decifrare. Avrei la pretesa con questa scrittura di mettere in chiaro i perché: ‘Perché metti al bordo della tela, perché vuoi ricreare una centralità fuori da una centralità preesistente da quando è nato un certo criterio? Perché vuoi allontanare l’idea di un supporto, con la sua centralità: vuoi dimostrare qualcosa? Non dimostro un bel niente! Affermo un principio. È questa la differenza. All’interno della tela devi dimostrare di essere bravo’, – Guarda che bella mano…” – Ma fuori dal supporto affermi un principio”.
Un pensiero complesso…
“È ricreare una centralità fuori dalla centralità presunta. Chi ha detto che quella è la centralità? Fuori dalla tela c’è il mondo. Dentro la tela c’è una briciola della briciola di mondo. Quello che metti dentro la tela dimostra la tua capacità. Ma io non voglio dimostrare di essere ‘capace’”.
Si è spiegato chiaramente, non sapevo che fosse un uomo di lettere…
“Di fronte a un ‘Fuoriquadro’ la gente guarda e si domanda perché tanta assenza. Se la racconto forse tento un chiarimento senza essere uomo di lettere: esiste l’impatto visivo. Vorrei che si capisse attraverso una sensazione quello che ho detto”.
La sua è un’arte che va spiegata…
“Quelli che ne hanno viste di tutti i colori non hanno bisogno di spiegazioni: funziona l’impatto visivo. Esempio: faccio un ‘Fuoriquadro’ e poi ne faccio un altro. Tutti e due sottostanno alla stessa legge, entrambi si rifanno all’idea di un tradimento di una presunta centralità per un’altra centralità. Uno funziona di più e uno meno. Questo vuol dire che l’impatto è fondamentale. Non è un concetto, è la grande tradizione tradita! Un’altra storia”.
Quale periodo del suo percorso artistico è più legato?
“Si c’è un momento preciso che ha segnato un modo di vedere. Lo ricordo perfettamente, è il 1976. Quando ho concepito un lavoro dal titolo ‘Teoria’. Quel lavoro segna una svolta nella mia arte”.