L’antimafia si autocelebra e diventa un rito stanco

Valentina Barbieri

Tale madre, tale figlio. La moritura Provincia di Reggio sembra aver partorito quest’anno un fanciullo ancora più decadente della genitrice: il quarto e forse ultimo festival “Noi contro le mafie”.

Facciamo qualche passo indietro. Siamo nel 2009 e Antonio Nicaso, durante uno dei suoi primi incontri pubblici in città, sventola animosamente pagine di quotidiani locali in cui si annuncia che alcuni esperti di antimafia calabresi avrebbero portato “inutili allarmismi” a Reggio insieme alla notizia di un profondo e ormai ventennale radicamento della ‘ndrangheta nei nostri territori.

Dal 2009 ad oggi la coppia Antonio Nicaso-Nicola Gratteri scala tutte le classifiche di notorietà a Reggio, inizia ad essere citata dai dilettanti dell’antimafia e da una sfilza di amministratori in ogni occasione-anche a sproposito-finché non si pensa di istituire un vero e proprio festival della legalità che faccia da contraltare alla tre giorni organizzata da Libera nel mese di marzo.

Frasi del tipo ” Grazie a voi abbiamo acquisito gli anticorpi per combattere il radicamento mafioso” fioccano parallelamente ad una serie di interdittive antimafia, prontamente emanate dal prefetto De Miro.

Le prime edizioni di “Noi contro le mafie” si popolano di professionisti e di testimoni. Si tentano esperienze coinvolgenti per i giovani: laboratori interattivi, spettacoli teatrali, concerti, letture pubbliche. Sembra che qualcosa si muova. Di positivo, s’intende. Importanti sono gli esiti dei percorsi formativi all’interno delle scuole superiori, i piccoli progetti che crescono.

Col passare del tempo tutto piomba in una ripetizione delle stesse presenze, delle stesse ospitate politiche, degli stessi discorsi, dello stesso selezionato pubblico. E a peggiorare il tutto si aggiunge l’indottrinamento, quasi studiato a tavolino, dei volenterosi ragazzi di “Cortocircuito”. Balzati agli onori della cronaca per la famosa inchiesta sui roghi sospetti, applauditi fino all’esaurimento, elogiati da chiunque per il loro talento investigativo. Ne parlo da protagonista di questa inchiesta, definita così in modo evidentemente erroneo. Nessuno in questi mesi ha avuto il coraggio di sottolineare che la così nota “inchiesta” di Cortocircuito non è altro che un collage, certamente confezionato alla perfezione, di notizie pubblicate sui quotidiani locali e recitate testualmente a turno da alcuni ragazzi davanti ad una telecamera.

Svolgendo un necessario lavoro di autocritica, l’unico merito che mi posso riconoscere per aver partecipato a questa “inchiesta” è quello di essere uscita di casa un giorno torrido dell’estate scorsa per registrare una bella cosa. Nulla di più. Ben conscia che fare inchiesta è un’altra cosa. Magari bastasse tagliuzzare i quotidiani e registrare delle belle immagini. Lo dico ribadendo il mio sconcerto per la risonanza che questo bel lavoro ha avuto in città e non solo. Era la ciliegina che mancava ai nostri amministratori per poter ripetere una volta in più i loro slogan sulla cittadinanza attiva, sulla partecipazione dei giovani, sugli anticorpi,
sulla lotta all’antimafia.

Arriviamo ad oggi. “Noi contro le mafie” di quest’anno ripropone eventi già organizzati tali e quali negli anni scorsi( ancora Piera Aiello, ancora Arcangelo Badolati,ancora I.M.D, ancora il super ospite Gratteri). Lo dico con una certa amarezza conoscendo personalmente i suddetti e le loro indiscutibili competenze in materia, ma non condivido più il contenitore. Tutti gli eventi sono condotti da Cortocircuito. Nessuno si chiede il perché. Forse perché fa comodo avere al proprio servizio giovani contaminati, loro malgrado, dalla più bieca retorica dell’antimafia. O meglio, giovani che non fanno del male a nessuno, che si presentano agli eventi con gli interventi scritti dalla prima all’ultima battuta. Che hanno perso inconsciamente la loro freschezza, la loro energia, il loro essere giovani. Sotto le false spoglie di un’antimafia che purtroppo continua a piacere a tanti.

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