Oggi in Italia non ci sono centrali nucleari attive. E, soprattutto per i più giovani, sembra che l’Italia non abbia mai avuto collegamenti rilevanti con questo settore. Eppure, il Bel Paese nello scorso secolo ha avuto un ruolo chiave nello sviluppo del nucleare. Cosa è rimasto di tutto ciò? In questo articolo ripercorriamo i più rilevanti avvenimenti della storia del nucleare in Italia.
L’Italia ha avuto una storia intrinsecamente connessa al nucleare, per via di grandi competenze in materia (basti ricordare, senza pretesa alcuna di esaustività, di illustri uomini di scienza come Fermi, Amaldi, Pontecorvo, Segré, Majorana e i Ragazzi di Via Panisperna) e un clima politico inizialmente favorevole all’utilizzo di questa fonte energetica. Per fare fronte alla carenza di combustibili e all’esplosiva industrializzazione dell’intero continente al termine del secondo conflitto mondiale, i primi sei Stati fondatori della Comunità del Carbone e dell’Acciaio (la CECA da cui è nata la stessa Unione Europea) decisero di puntare sul nucleare per raggiungere l’indipendenza energetica. Per questo gli stessi sei fondatori, fra cui l’Italia, diedero vita alla Comunità Europea dell’Energia Atomica (Euratom) con l’obiettivo di contribuire alla ricerca e allo sviluppo di impianti per la produzione di energia da fissione per usi pacifici.
A ben vedere, lo sfruttamento dell’energia nucleare nel nostro Paese e la generazione di elettricità da centrali nucleari, hanno avuto luogo tra il 1963 e il 1990. Nel 1966 l’Italia appariva il terzo produttore al mondo dopo Stati Uniti e Inghilterra.
La decisione di fabbricare la prima centrale elettronucleare fu presa già all’indomani della conferenza di Ginevra “Atomi per la pace” del 1955 che condusse il nostro Paese, nel decennio successivo, a edificare sul territorio tre impianti (cosiddetti di prima generazione) eretti sulla base delle (innovative) tecnologie dell’epoca.
Dato che le tecnologie disponibili nelle prime fasi dello sfruttamento dell’atomo erano molteplici e non si comprendevano vantaggi e svantaggi, l’Italia si dotò di tre centrali caratterizzate da differenti processi; tutte di origine anglo-statunitense. Si trattava di archetipi che dunque servirono anche a inglesi e americani per testare i loro reattori prototipali (sic).
La prima centrale elettronucleare italiana, entrata in funzione nel giugno del 1963, fu approntata nel Lazio a Latina (Centrale elettronucleare latina). Si trattava di un impianto con un unico reattore Magnox da 210 MW e raffigurava l’esemplare più potente a livello europeo.
Nel giugno del 1964 fu, poi, predisposta quella di Sessa Aurunca (Centrale elettronucleare Garigliano) in Campania, in provincia di Caserta e in prossimità dell’omonimo fiume con reattore nucleare ad acqua bollente (BWR) da 160 MW.
Nel gennaio 1965 iniziò le sue attività la terza centrale in Piemonte a Trino (Centrale elettronucleare Enrico Fermi), in provincia di Vercelli con reattore nucleare ad acqua pressurizzata (PWR) da 270 MW. Si trattò di un impianto finanziato per la metà da contributi statunitensi. Al momento della sua entrata in funzione costituiva la centrale elettronucleare più potente nel mondo!
L’energia prodotta da queste tre centrali era comunque poca cosa rispetto alla produzione nazionale, a cui contribuivano mediamente per il 3-4%.
Nel dicembre 1981 ebbe iniziò l’attività la quarta centrale, in Emilia Romagna, a Caorso, in provincia di Piacenza (Centrale elettronucleare Caorso), con reattore BWR da 860 MW, l’unica delle quattro ad essere di seconda generazione.
Una quinta centrale, nel Lazio a Montalto di Castro in provincia di Viterbo (Centrale elettronucleare Montalto di Castro, conosciuta anche come centrale elettronucleare Alto Lazio), la cui costruzione iniziata nel 1982, non fu mai ultimata a seguito degli eventi susseguitesi negli anni ’80; in particolare per via dell’esito dei referendum che decretarono lo stop al nucleare. Le proprietà delle centrali furono trasferite in differenti momenti all’ENEL.
Fino alla metà degli anni ’70 non esistevano una programmazione energetica, azioni sul territorio volte a migliorare l’efficienza energetica e attività tese ad aumentare il ricorso alle fonti rinnovabili, agire al fine del risparmio energetico e dell’utilizzo razionale dell’energia. Ciò nonostante, un forte impulso verso il nucleare si ebbe, a inizio degli anni ’70, a causa del repentino aumento dei prezzi di importazione dei prodotti petroliferi dovuti alla questione arabo-israeliana.
Fu così che, nel 1975, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economia (CIPE) e il Parlamento italiano approvarono il primo Piano Energetico Nazionale (PEN) che annunciava, fra l’altro, un forte sviluppo della componente elettronucleare e prevedeva la realizzazione di ulteriori otto unità nucleari su quattro nuovi siti. Tali scelte furono riprese nel successivo PEN del 1981. La scelta di realizzare impianti nucleari, infatti, era legata all’obiettivo di diminuire l’ancora elevatissima dipendenza dell’economia italiana dal petrolio e migliorare la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, mirando nello stesso tempo alla riduzione del costo dell’energia.
Accanto agli impianti nucleari all’epoca in esercizio, erano previste l’ultimazione della centrale di Montalto di Castro e la costruzione, entro il 1995, di ulteriori centrali in Piemonte, Lombardia e Puglia, per le quali il CIPE aveva già identificato le aree suscettibili di localizzazione. Forte attenzione era data all’aspetto della sicurezza con lo scopo di assicurare il corretto funzionamento dell’impianto, sia in condizioni di normale esercizio che in condizioni di incidente. La sicurezza delle attrezzature nucleari era, infatti, un assillo crescente anche in considerazione dell’incidente americano di Three Mile Island del 1979 e del guasto alla nostra centrale di Sessa Aurunca, poi fermata in conseguenza delle valutazioni sull’antieconomicità delle riparazioni. Ciò contribuiva a far nascere nell’opinione pubblica italiana una certa riluttanza sull’energia ricavata dall’atomo. Nonostante questo, il nucleare trovò ampio spazio anche nel PEN del 1985 che annunciava la realizzazione di nuove centrali per 12 GW entro il 2000 al fine di ampliare il mix energetico nazionale e ridurre la dipendenza dal petrolio importato.
Nell’aprile del 1986 il reattore numero 4 della Centrale nucleare di Černobyl’ esplose spargendo una nube radioattiva su una parte dell’Europa. L’effetto (negativo) sull’opinione pubblica italiana verso il nucleare fu annientante. Il mese successivo circa 200 mila persone si radunarono a Roma per manifestare contro l’energia dell’atomo. Il Partito Radicale promosse dei referendum abrogativi rastrellando ben un milione di firme in meno di quattro mesi. Il 24 febbraio 1987 si tenne la prima Conferenza Nazionale sull’Energia e l’Ambiente (CNEA) nel corso della quale la commissione scientifica delegata a stilare una relazione si mostrò divisa. Da una parte i propugnatori del nucleare avevano timore delle ripercussioni economiche, industriali e sociali che l’abbandono del nucleare avrebbe comportato. Dall’altra, gli antinuclearisti facevano presente che politiche di risparmio energetico e sviluppo delle rinnovabili avrebbero costituito un’alternativa sufficiente. Il referendum avrebbe deciso le sorti del nucleare. A causa delle dimissioni dell’esecutivo dell’epoca e delle successive elezioni la data del referendum fu fissata tra l’8 e il 9 novembre del 1987. Nel frattempo i movimenti ambientalisti si coalizzarono in un soggetto politico: la Federazione delle liste Verdi.
La popolazione italiana fu chiamata a pronunciarsi su tre quesiti diretti ad abolire le norme sulla realizzazione e gestione delle centrali nucleari, i contributi a Comuni e Regioni sedi di centrali nucleari, le procedure di localizzazione delle centrali nucleari.
Più in particolare, i tre referendum non precludevano in modo esplicito la realizzazione di nuove centrali, né prescrivevano la chiusura di quelle esistenti o in fase di realizzazione, ma si limitavano ad abrogare i cosiddetti “oneri compensativi” spettanti agli enti locali sedi dei siti identificati per la edificazione di nuovi impianti nucleari, la norma che riconosceva al CIPE la facoltà di scelta dei siti stessi in presenza di un mancato accordo in tal senso con gli enti locali interessati, nonché a precludere all’ENEL di partecipare alla costruzione di centrali elettronucleari all’estero.
Le consultazioni referendarie si conclusero con una netta affermazione dei «sì», che di media nei tre quesiti raggiunsero circa l’80% delle preferenze. Votarono complessivamente circa 29,9 milioni di italiani (i dati sono ancora oggi disponibili allo storico elezioni del Dipartimento per gli Affari Interni e il Territorio). L’incidente di Černobyl’ e le sue successive drammatiche conseguenze influenzarono pesantemente la campagna elettorale come pure le posizioni a favore del «sì» assunte dalla DC e dal PCI durante le elezioni. A ben vedere, i due principali partiti dell’epoca temevano un calo di consensi.
Se si tralascia il razionale effetto emotivo suscitato nell’opinione pubblica e negli elettori, le cause del disastro russo andavano però indagate, al di là di dell’errore umano, in relazione all’arretratezza tecnologica e all’insufficiente impegno che i progettisti sovietici avevano dato alle misure di sicurezza. E’ unanimemente provato che ambientalisti e partiti dell’epoca – i primi per inclinazione, i secondi per galoppare una materia di comprensibile popolarità – pretesero che si votasse per porre un altolà ideologico alla costruzione di centrali nucleari in Italia.
In relazione alle risultanze referendarie, come spesso accade nel nostro Paese, vi fu una celere inversione di tendenza:tra il 1988 e il 1990 i Governi dell’epoca posero fine all’esperienza elettronucleare italiana con l’abbandono del cosiddetto “Progetto Unificato Nucleare” e la chiusura delle tre centrali ancorafunzionanti di Latina, Trino e Caorso. In particolare, le due centrali di Latina e di Trino erano già realmente a fine vita, essendo state progettate per poter funzionare per 25-30 anni dall’accensione del reattore e, quindi, l’unica centrale che venne effettivamente chiusa con grande anticipo sul ciclo previsto fu quella di Caorso.
Fu il tramonto della produzione elettronucleare italiana.
La mancata produzione di energia elettrica da fonte nucleare, che nel 1986 aveva avuto il suo ultimo picco pari al 4,5% del totale (e che negli anni precedenti si attestava generalmente tra il 3 e4%) fu controbilanciata con l’aumento dell’utilizzo di combustibili fossili, in particolare carbone e gas e petrolio/olio combustibile, con un ulteriore incremento delle importazioni, passate complessivamente da 23 TWh del 1987 a 31 TWh del 1988, in aggiunta a quello già necessario ogni anno a coprire il generale aumento dei consumi.
Dal 1999 tutti i siti di queste centrali sono di proprietà e gestiti dalla Società Gestione Impianti Nucleari (SOGIN) l’azienda di Stato responsabile dello smantellamento (decomissioning) degli impianti nucleari italiani e della gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi prodotti.
Foto: La centrale di Montalto di Castro vista dal drone – Enel Futur-e (youtube)