Viaggiare è sempre un’esperienza bellissima e gioiosa eppure i fotografi in viaggio si trasformano in creature infelici: questa è la prima considerazione che faccio tutte le volte che comincio, per lavoro, a fare la valigia. La mia è un contenitore caotico, un arsenale di pezzi di metallo: due cavalletti, uno stativo, due macchine, cinque obiettivi, una torcia, un flash piccolo, il computer e poi un discreto numero che, per quanto ridotto pesa molto, di batterie. Le batterie costituiscono un peso ma non si possono mettere in valigia perché è vietato, dunque vanno inserite nel bagaglio a mano, cioè stipate nello zaino fotografico insieme a ciò che si ha di più prezioso. Così, carica fino all’estremo nonostante l’approccio minimalista e realizzando ancora una volta che il vero limite del bagaglio è quello delle nostre spalle, mi ritrovo in aeroporto aspettando che apra il check-in. Sono terrorizzata dall’imminente confronto con la hostess di turno per il peso sicuramente eccessivo che mi trascino sulle spalle e che mi fa camminare oscillando avanti e indietro.
Questo appassionante viaggio in Cile mi porterà come prima tappa a San Pedro de Atacama e durerà circa una trentina di ore: devo affrontare tre voli per arrivare a Calama, poi un’altra ora e mezzo di auto.
Qualche imprevisto, come sempre, era stato calcolato e anche l’imprescindibile “se qualcosa può andare storto, lo farà”. Dimenticare un treppiede nella cappelliera dell’aereo per poi accorgersene quando sei in fila per il controllo passaporti del volo successivo: fatto. Dopo aver recuperato l’oggetto con lo slancio e il sudore degni di un sopravvissuto a una corsa campestre rimettersi in fila, andare al nastro trasportatore dei bagagli e non trovare il tuo: fatto. Recuperare la valigia, che nel frattempo era stata contrassegnata da una fascetta rossa, agli oggetti smarriti: fatto. Scoprire che il nastrino rosso implicava un ulteriore passaggio al metal detector: fatto. Alla fine è andata bene. Sono arrivata, nonostante tutto.
San Pedro de Atacama è come la ricordavo: tutto immutato rispetto dalla visita di tre anni fa. La cittadina sorge su un altipiano delle Ande a 3159 m di altitudine. E’ veramente affascinante: un felice incontro fra una scenografia western e un’oasi in mezzo a un deserto di sabbia. Le strade sono di terra rossa battuta e ovviamente molto polverose. Gli edifici bassi, al massimo di due piani, sono in muratura, tinteggiati di rosso scuro come le strade oppure di bianco, le finestre sono in legno naturale oppure dipinte di blu, i tetti ricoperti di paglia. I lampioni stradali sono incredibili: in legno con aggrovigliati tanti fili da sembrare strane ragnatele. Nel centro del paese c’è sempre un via vai di turisti e di Indios, tutti molto cordiali e ospitali. Nelle vicinanze di San Pedro ci sono posti incantati da scoprire, soprattutto per chi, come noi europei, non è abituato a un paesaggio così fortemente contrastante che passa dalla monocromia del deserto e ai colori sgargianti tipici della natura di questo luogo.
Sono andata in escursione al sito archeologico di Pucara de Quitor. I pucara o pukara, erano costruzioni caratteristiche degli atacamenos (gli antichi abitanti delle regioni settentrionali del Cile) e svolgevano la funzione di protezione dei villaggi come un forte o una fortezza. Quello di Quitor risale al XII secolo e si trova a due km a nord di San Pedro sul versante meridionale della Cordillera de la Sal, vicino al fiume San Pedro o Rio grande. Per visitare la fortezza si deve affrontare una salita sotto il sole ma ne vale la pena: in cima alla collina e si gode di una vista mozzafiato e di un fantastico panorama dell’oasi.
Nello stesso giorno visito anche la base Sequitor di APEX, una stazione tecnica che gestisce l’Atacama Pathfinder Experiment, un’antenna di dodici metri collocata a 5.100 m di altitudine sull’altopiano di Chajnantor frutto di una collaborazione tra il Max Plank Institute of Radioastronomia (MPIfR), l’Osservatorio Spaziale Onsala (OSO) ed ESO. La base è un posto decisamente sorprendente. In caratteristiche costruzioni locali, che non si immagina possano ospitare un centro ad alta tecnologia, lavorano gli astronomi che gestiscono l’antenna.
Esplorerò altri luoghi in cui gli astronomi lavorano e vivono e so già che saranno molto diversi tra loro. Mi sembra di fare un pellegrinaggio, iniziando da la Ruta del Desierto e proseguendo ne la Ruta de las Estrellas, ma contrariamente a quanto avviene nel noto cammino di Santiago in cui non esistono soste prefissate e ci si ferma quando si è stanchi, devo procedere a tappe forzate.
Foto di Giovanna Focardi Nicita