Firenze – Una di quelle imprevedibili e tragicamente beffarde coincidenze della nostra quotidianità ha fatto sì che il film che inaugurato la quattordicesima edizione del Festival Middle East Now fosse ambientato a Gaza e che fosse la pellicola straordinariamente più comica che il tradizionale e riconosciuto sense of humour palestinese potesse produrre. “A Gaza weekend”, di Basil Khalil, già candidato agli Oscar per il corto Ave Maria, è la storia di un maldestro giornalista britannico e di sua moglie israeliana che tentano di fuggire da una pandemia scoppiata in Israele attraverso la striscia di Gaza con tutto l’apparato comico possibile nello sforzo di sfuggire alla polizia di Hamas.
Coinvolto dalle situazioni create da un’abile sceneggiatura, gli spettatori tuttavia non potevano fare a meno di pensare alla tragedia in atto in quel lembo di terra disperato. “Benvenuti nella più grande prigione a cielo aperto del mondo”, dicono alla coppia gli ingegnosi venditori di paccottiglia che li aiutano a fuggire. Già, da decenni Gaza è un’enclave super popolata che cerca di sopravvivere in un conflitto permanente con Israele e tenuta sotto un rigido cordone sanitario dall’Egitto.
Di solito nelle prigioni prevalgono i peggiori tagliagole, i banditi senza scrupoli, i mafiosi incalliti, gli estremisti di ogni risma. Quale meraviglia allora che gli attacchi di Hamas di sabato 7 ottobre siano stati sanguinari ed efferati , atti che la parola terrorismo riesce a malapena a definire? Nessuna giustificazione può avere una violenza sistematica che assomiglia tanto a un pogrom nell’Europa dell’intolleranza e del razzismo. Quei miliziani che hanno perpetrato massacri nei kibbutz , morte e distruzione nelle cittadine meridionali di Israele otterranno solo che la propria gente diventi vittima della reazione israeliana.
Ma cosa hanno fatto quei disgraziati semplici cittadini di Gaza City per meritarsi quello che è accaduto e sta per accadere? Quando scoppia una guerra è sempre complicato individuarne le origini guardando al passato. Per quanto riguarda la striscia di Gaza, tuttavia, se si ha un minimo di equilibrio nel giudizio, è abbastanza chiaro che la comunità internazionale da tempo ha chiuso gli occhi di fronte alla situazione di tre milioni di persone imprigionate, costrette a vivere di aiuti senza avere alcuna autonomia nei servizi essenziali , facile preda del radicalismo religioso e degli uomini della violenza.
Stanno morendo in tanti nella striscia di Gaza e tanti ne moriranno ancora perché sono chiusi in una trappola mortale. Stavolta però la comunità internazionale e i suoi organismi non possono voltare la testa dall’altra parte. E’ tempo che la gente di Gaza si liberi dei suoi governanti-guardiani-aguzzini e venga messa sotto la protezione delle Nazioni Unite. Aspettando che tornino circostanze favorevoli alla trattativa per la creazione di uno stato palestinese.