La Tav Torino-Lione: conflitti italiani e débat public francese

La questione della contrattazione territoriale

La vicenda storicamente di maggior impatto nel contesto della realizzazione di infrastrutture in Italia è rappresentata dalla lenta e difficoltosa costruzione della linea ad Alta Velocità fra Lione e Torino. Nessun’altra tratta analoga ha subito un contrasto come quella in Val di Susa, né una tale intensa ribellione si è mai verificata in occasione della realizzazione di altri tipi di infrastrutture.

Nata nel 1987 all’interno del progetto Tecnocity avviato dalla Fondazione Agnelli e dagli industriali piemontesi con l’intento di sostituire la linea per la Val di Susa risalente al XIX secolo, la nuova linea veloce prevedeva una lunghissima galleria di 52 km, in seguito divenuti 57 con due tunnel a binario semplice. Per sostenerne l’esigenza veniva formato nel 1990 un comitato, che raggruppava imprenditori e soggetti istituzionali. Le principali motivazioni esposte, in sintesi, erano di due ordini: la riduzione dei tempi di percorrenza, alleggerendo i passaggi per i tunnel del Monte Bianco e del Fréjus, e il miglioramento delle condizioni ambientali attraverso il riequilibrio del trasporto merci a favore della rotaia, sbagliando però fin dall’inizio per eccesso di ottimismo i calcoli relativi all’ipotizzato aumento del traffico merci. 

Dall’altra parte delle Alpi, i francesi si muovevano sulla stessa lunghezza d’onda, creando nella regione Rhône-Alpes un comitato analogo. Quando le due amministrazioni, con l’inizio degli anni Novanta, avviavano gli studi prendeva corpo anche una convinta politica comunitaria a favore della realizzazione di una rete europea, sulla scia della preparazione del trattato di Maastricht e della definitiva liberalizzazione dei mercati, cui si connetteva lo sviluppo integrato delle reti di comunicazione. Il tratto Torino-Lione venne prima incluso nell’elenco dei Trans-European Transport Networks (TEN-T) poi inserito nel Corridoio 5 Lisbona-Kiev e infine reinquadrato nell’ambito del nuovo Corridoio mediterraneo disegnato all’epoca da Algeciras fino a Lione e Torino, dirigendosi verso est. Ma insieme con gli studi partivano anche le proteste. Le prime furono sollevate già nel 1993, tre anni più tardi veniva organizzata la prima manifestazione da parte di comitati spontanei sorti nella valle.

La contestazione sviluppatasi contro la linea ferroviaria rappresenta un laboratorio di grande interesse per la valutazione socio-politica del fenomeno della contrattazione territoriale sulle infrastrutture e di quello del movimentismo in Italia negli ultimi trent’anni. La vicenda si colloca al centro dei delicati rapporti fra uso del territorio spesso brutale e incurante dei cittadini e comunità locali sempre meno disposte a tollerare quelli che ritengono evidenti abusi nei riguardi dei propri diritti.

Si è trattato di un caso di resistenza locale, basata soprattutto su movimenti politici legati all’estrema sinistra e ambientalisti, contro un progetto di interesse generale: si chiedeva l’adeguamento della linea esistente piuttosto che la costruzione di una nuova. In un’epoca in cui andavano diffondendosi mobilitazioni spontanee contro situazioni ritenute a livello locale pericolose e generatrici di disagi, le proteste contro opere infrastrutturali sgradite in quanto ritenute colpevoli di stravolgimenti territoriali dirompenti erano in grado di raccogliere vasti consensi.

Quello che mancò fin dall’inizio fu qualsiasi forma di comunicazione da parte dell’attore statale, che obbligò a subire l’iniziativa con protervia, inducendo un senso di vittimismo che avrebbe fatto da cemento fra la popolazione. La visione tecnocratica, che esclude il dialogo e considera i contestatori degli egoisti attaccati solo ai propri interessi locali, alla lunga avrebbe funzionato al contrario come una delle grandi leve della protesta popolare. Risultava controproducente la contrapposizione fra sapere tecnico e preteso basso livello di conoscenza e di fondatezza scientifica, indotta dai promotori della ferrovia, cioè quasi un’imposizione di un approccio espertocratico.

La prospettiva francese era molto diversa. Il débat public, istituto obbligatorio in questi casi, che prevede che un’autorità amministrativa indipendente venga incaricata di vigilare sul rispetto del principio di partecipazione pubblica ed inclusione della cittadinanza nei processi di elaborazione di progetti infrastrutturali portatori di un notevole impatto su ambiente, territorio e sul contesto socioeconomico, ha evitato la diffusione delle proteste. Funzionò bene come meccanismo di democrazia partecipativa e di previa consultazione, studiato esattamente per prevenire le contestazioni, avviando un dialogo con la popolazione prima del lancio dell’infrastruttura e quindi preparando insieme il terreno.

Con il nuovo secolo veniva avviata la realizzazione del tunnel di base e contestualmente emanata la “Legge obiettivo”, il cui scopo era di semplificare gli adempimenti per la realizzazione delle grandi opere, permettendo al governo di semplificare al massimo l’iter di autorizzazioni necessarie. Ciò provocò anche un deciso inasprimento delle contestazioni fino allo scontro aperto. Si allargava la base della popolazione consapevole e si creava il movimento No Tav. La questione cambiava aspetto: non più patrimonio dei tecnici o dei più esagitati difensori dell’ambiente, ma di pertinenza di un’aggregazione sociale detentrice di un’identità collettiva.

L’autunno del 2005 rappresenta uno spartiacque e un punto di non ritorno dell’intera vicenda: l’avvio dei sondaggi diagnostici per la realizzazione della galleria apriva una nuova fase conflittuale culminante nei tumulti a Venaus, sedati da un pesante intervento della forza pubblica. Per tamponare l’emergenza e reimpostare la questione su un piano di confronto e negoziazione, maggiormente rispettoso delle esigenze della popolazione, venivano costituiti il Tavolo istituzionale di Palazzo Chigi e l’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino-Lione, soggetto non assimilabile a nessuno degli strumenti già sperimentati a livello internazionale per affrontare i conflitti territoriali.

In sostanza due nuove figure di analisi e di interposizione, create anche per anestetizzare il dissenso della valle, che alla lunga non sarebbero riusciti a raddrizzare il rapporto fra le parti definitivamente compromesso. Dal confronto è scaturita nel 2010 la ragione basilare per la riformulazione del progetto per la parte italiana, il Fare (Ferrovie alpine ragionevoli ed efficienti), ridimensionamento inevitabile ma ritardato, che disegnava un più realistico scenario meno impattante sotto il profilo ambientale e sociale.

Da questa storia si possono trarre alcune impressioni. La tecnologia da sola non è sufficiente per garantire il successo, non basta il tecno-ottimismo di per sé, che anzi in Val di Susa ha preso le forme dell’oppressione e come tale è stato combattuto. Inoltre la vicenda della linea fra Torino e Lione si pone in termini di case study, particolarmente appropriato in merito alla pratica della democrazia dal basso praticata dai contestatori esclusi dai processi decisionali. La ribellione rappresenta un laboratorio di grande interesse per la valutazione socio-politica del fenomeno del movimentismo in Italia sviluppatosi in occasione della progettazione ed attuazione di una grande opera infrastrutturale, fino a renderlo una prefigurazione della rivolta populista.

Andrea Giuntini

Total
0
Condivisioni
Prec.
Ritorno nella città villaggio

Ritorno nella città villaggio

Dovrai entrare con rispetto e cortesia

Succ.
Cascine, sopralluogo di Nardella col Prefetto, raddoppio delle telecamere

Cascine, sopralluogo di Nardella col Prefetto, raddoppio delle telecamere

Firenze – Mattinata dedicata alle Cascine per il sindaco Dario Nardella e

You May Also Like
Total
0
Condividi