La Storia, per un insieme di ragioni che non staremo qui a spiegare, ma che potete trovare mirabilmente riassunte in un celebre passo de “L’insostenibile leggerezza dell’Essere” di Milan Kundera, non insegna mai nulla ai posteri né ha la capacità di farlo. Tuttavia nelle vicende storiche si ripetono alcune costanti assimilabili a vere e proprie leggi. Una di queste ci dice che l’estremismo e la violenza generano sempre il Male. Aprono un vaso di Pandora da cui escono forze malvagie distruttive e altamente deleterie per la società. Ecco perché ha senso tornare a parlare di fatti avvenuti 100 anni fa, come l’assassinio di Matteotti e il clima torbido dell’Italia di quegli anni, dal quale emerse la lugubre Idra del fascismo.

L’Italia del 1921, nella quale si agitavano con sempre maggiore arroganza le camicie nere di Benito Mussolini, nella sostanziale indifferenza di magistratura e forze dell’ordine, era un Paese prostrato, dove dilagavano la disoccupazione e la povertà. Dopo l’ecatombe della prima guerra mondiale, il Paese era invaso da milioni di ex militari frustrati e con le tasche vuote, e attraversato dai tumulti ispirati dai partiti di sinistra e dai movimenti massimalisti. Il 1919 e il 1920 rimangono negli annali come il Biennio Rosso, durante il quale in molti massimalisti fu forte la tentazione di “fare come in Russia”. Le fabbriche furono paralizzate da scioperi guidati da milizie armate di ispirazione bolscevica. L’ala più oltranzista del Partito Socialista, capeggiata da Gramsci e Togliatti, teorizzava apertamente una rivoluzione sovietica anche per l’Italia.

L’anatema scagliato da Palmiro Togliatti nel 1932 contro Filippo Turati per commentare la morte del leader socialista: “La sua vita e la sua fine possono essere poste sotto l’insegna del tradimento e del fallimento. Organicamente egli era un controrivoluzionario, un nemico aperto della rivoluzione. Turati fu tra i più disonesti dei capi riformisti, perché fu tra i più corrotti dal parlamentarismo e dall’opportunismo. Noi fummo e rimaniamo sui acerrimi nemici”. Il capo dei comunisti italiani, però, negli anni ’50 ammorbidì notevolmente questo giudizio infamante
Perfino la FIAT venne occupata da operai armati, nell’ufficio di Giovanni Agnelli furono appese le bandiere rosse e un grande ritratto di Lenin. In un drammatico consiglio di amministrazione, Agnelli fece approvare la proposta di cedere la FIAT a una cooperativa socialista. Furono gli stessi Gramsci e Togliatti a rifiutare l’offerta, scrivendo in un editoriale su “l’Avanti!” di Torino che assumere la gestione di un’azienda così grande avrebbe fiaccato lo spirito rivoluzionario degli operai. Alla fine l’insurrezione di stampo bolscevico non ci fu, gli scioperi cessarono e la FIAT rimase nelle mani della famiglia Agnelli. Ma nel ceto medio e nella borghesia il timore che la Rivoluzione Comunista, che in Russia aveva scatenato il cosiddetto Terrore Rosso, provocando centinaia di migliaia di morti, fosse dietro l’angolo, si diffuse a macchia d’olio. In questo clima, a Milano, agli inizi del 1921, venne arrestato Enrico Malatesta. L’anarchico casertano era ormai vicino alla soglia dei 70 anni, ma la sua interminabile collezione di arresti rimediati in mezza Europa aveva fatto di lui una specie di mito per i massimalisti italiani. Meno di due anni prima, nel settembre 1919, Bruno Filippi, un giovane anarchico livornese, aveva fatto del suo meglio per rinnovare la vocazione bombarola dei seguaci di Bakunin, ma era saltato per aria in Galleria Vittorio Emanuele, mentre trasportava un ordigno forse destinato a fare strage al Caffè Biffi, elegante luogo di ritrovo e svago della Milano bene dell’epoca.
L’anarchismo milanese si mobilitò per reclamare la liberazione di Malatesta, il vecchio arruffapopolo che gli ammiratori chiamavano “il Lenin italiano”. Purtroppo tre giovani anarchici lombardi, i mantovani Giuseppe Mariani e Giuseppe Boldrini e il milanese Ettore Aguggini, misero nel mirino il Questore Giovanni Gasti ed ebbero la pessima idea di colpire con un attentato dinamitardo un altro dei simboli della buona borghesia meneghina, il civettuolo Teatro Diana vicino a Piazza Venezia, che il Questore frequentava. Il 23 marzo 1921 alle 23, mentre l’orchestra suonava “Mazurka Blu” di Franz Lehar, i terroristi lasciarono una valigia con 20 kg di esplosivo davanti all’ingresso degli artisti. La strage fu orrenda e i giornali dell’epoca non si risparmiarono nella descrizione dei dettagli più macabri. I morti furono 21, molti dei corpi furono ridotti a brandelli, tra loro anche bambini e alcuni orchestrali.

Antonio Funiciello, manager ENI, già Capo di Gabinetto a Palazzo Chigi di Mario Draghi e prima ancora di Paolo Gentiloni. I capitoli 6,7,8 del suo saggio su Matteotti si intitolano rispettivamente “Matteotti il riformista”, “Matteotti l’antifascista” e “Matteotti l’anticomunista”
L’impressione a Milano e in tutto il Paese fu enorme. E il Questore Gasti quella sera a teatro neanche si presentò. Al processo, Mariani, che prese l’ergastolo, peggiorò le cose, dichiarando che non immaginava che tra i presenti ci fossero anche operai e proletari, come dire che della morte orribile inferta a tante persone, colpevoli di essere giornalisti, ingegneri, ecc. o loro parenti, cioè “borghesi”, gli importava poco. Malatesta condannò la mattanza, ma ormai la tragedia era compiuta e il danno per la reputazione degli anarchici e della sinistra massimalista era stato fatto. Scrivere che i fascisti cavalcarono e strumentalizzarono l’ondata di sdegno e di paura causata dalla strage del Diana sarebbe un eufemismo. Per mesi Mussolini e i suoi pubblicarono editoriali furenti sulle responsabilità dei “socialisti bolscevichi”, giurando che avrebbero impedito con ogni mezzo che la sinistra prendesse il potere anche in Italia. La strage del Diana divenne uno dei cavalli di battaglia della loro propaganda, incendiaria di nome e di fatto.

Alle elezioni politiche del maggio 1921, l’avanzata elettorale dei fascisti fu impetuosa. E’ altrettanto doveroso ricordare che nei primi mesi del 1921 i fascisti già vantavano nel loro macabro curriculum centinaia di pestaggi, svariati omicidi e la distruzione di decine di camere del lavoro, cooperative e sedi socialiste. Il massacro di Piazza Maggiore a Bologna, dove i fascisti lasciarono senza vita sul selciato dieci socialisti e un consigliere comunale liberale, era avvenuto il 21 novembre 1920. Il fascismo però non fu solo una reazione alle velleità rivoluzionarie di comunisti, anarchici e socialisti massimalisti. Fu, ahinoi, peggio e molto di più. Fu un’ideologia e un movimento politico dedito al culto del capo e della Patria e alla pratica della violenza, nel quale si riconobbero centinaia di migliaia di italiani che in guerra si erano assuefatti alla brutalità e all’annientamento degli avversari e che, tornando alla vita civile, si erano ritrovati più poveri di quando si erano arruolati.

La strage del Teatro Diana fu dunque uno degli episodi che diedero una spinta a precipitare l’Italia nel gorgo delle violenze fasciste e spostarono i consensi di gran parte della piccola borghesia, spaventata dalla possibilità che l’Italia facesse la fine della Russia, verso il fascismo e Mussolini. I primi a farne le spese, anche con la vita, furono proprio i socialisti riformisti e gradualisti come Giacomo Matteotti, che, per arginare l’ondata nera, avevano dato la loro disponibilità a formare governi di unità nazionale con cattolici e liberali, scontrandosi però con l’opposizione dei massimalisti. Per i comunisti, infatti, il fascismo era solo una variante del capitalismo e della vecchia formula marxiana dello Stato come “comitato di affari della borghesia”. Gli anarchici consideravano corresponsabili del trionfo del fascismo sia il “settarismo dei comunisti” che il “disfattismo delle burocrazie socialiste politico-sindacali”, colpevoli, a loro giudizio, di avere disinnescato la rabbia spontanea di operai, proletari e “arditi” che in più di un’occasione, agli inizi degli anni ‘20, si erano sollevati per combattere contro le squadracce fasciste.

Per Matteotti, Turati e Prampolini, al contrario, la lotta doveva avvenire in Parlamento, nei Comuni e nelle istituzioni, e la via per arrivare al socialismo doveva passare dalla costruzione di scuole e ospedali e da un lavoro dignitoso per tutti. I tre leader nel 1922 si fecero espellere dal Partito Socialista, e fondarono un nuovo partito, il PSU (che alle elezioni del ’24 prese più voti degli altri partiti della sinistra), per avere aperto alla possibilità di collaborazione con cattolici e liberali e per avere contrastato la deriva estremista dei socialisti massimalisti verso Togliatti, Gramsci e Bordiga, cioè verso i comunisti e gli estremisti, che puntavano a instaurare anche in Italia la dittatura del proletariato.
Riformisti, comunisti e anarchici: tre anime della sinistra, tre visioni della società che, agli inizi degli anni ’20, divennero inconciliabili, e sarebbero rimaste tali per sempre, fatte eccezioni per alleanze tattiche dall’esito disastroso e corto respiro come l’esperienza del Fronte Popolare. Al contrario, comunisti, fascisti e anarchici avevano in comune due convinzioni granitiche. Una era quella nel ruolo salvifico della violenza come levatrice di una nuova società: la comunità dei patrioti al seguito di un Duce per i fascisti, la dittatura del proletariato per i comunisti, l’abolizione dello Stato e dello sfruttamento borghese per gli anarchici. L’altra era il disprezzo per le istituzioni parlamentari.
Perciò ha ragione da vendere Riccardo Nencini, ex segretario del PSI, quando afferma che rievocare la figura di Matteotti, senza ricordare le sue idee e la sua militanza politica, costituisca una celebrazione monca. Riesaminare gli anni che hanno portato all’avvento del fascismo evidenziando le logiche da guerra civile che animarono troppe parti in causa e tenendo presente il contesto internazionale, che vide sia l’Unione Sovietica che quasi tutte le cancellerie occidentali strizzare l’occhio al nascente regime fascista, farebbe sicuramente un servizio migliore alla comprensione storica di quegli avvenimenti. Di Matteotti ciò che realizzò e predicò in vita va ricordato e celebrato non meno del suo estremo sacrificio. Premettere a ogni iniziativa dedicata a Matteotti e agli anni ’20 che Matteotti e i riformisti avevano ragione e i comunisti e gli anarchici avevano torto sarebbe un buono e onesto punto di partenza. Matteotti, soprannominato dai compagni di partito “Tempesta” per il carattere battagliero, non fu l’avanguardia di una grande alleanza antifascista delle sinistre: fu un eroe solitario.
Esiste una letteratura molto vasta sull’Italia di quegli anni. Tra le nostre opere preferite, anche perché ben scritte e di agevole lettura, oltre a “Mazurka blu, la strage del Diana” di Vincenzo Mantovani, citiamo “L’Eco di uno sparo” dello scrittore e musicista reggiano Massimo Zamboni, che da comunista ripercorre la storia tragica del nonno fascista, il recentissimo “Benito. Storia di un italiano” di Giordano Bruno Guerra, “Solo” di Riccardo Nencini, “Tempesta. La vita (e non la morte) di Matteotti” di Antonio Funiciello, e l’immortale “Marcia su Roma e dintorni” del grande Emilio Lussu.
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