La stanza accanto: impeccabile Almodòvar, ma senza il suo fuoco

Solo Stanley Kubrick è stato autore  immensamente  polimorfo

Il segno che ha distinto per quarant’anni  tanto cinema di Almodòvar  è stato  la  fiamma  che lo animava  sempre  e inverava del  suo specialissimo tocco quello che  a Hollywood  chiamano action motion movie.  Ma questa definizione  non è sufficiente  a definire  il modo con cui il regista della Mancia ha  via via elaborato  in carriera   la sua particolare miscela in cui  commedia  e  drama  si sono via via miscelate  in una particolare versione del melodramma  che diventa spesso anche  thriller , un giallo soprattutto dell’anima.  E  anche una riflessione  sulle passioni e il gioco del caso e  i sensi della vita e della morte.  In una sua presentazione / spot  de La stanza accanto  ( Leone d’Oro a Venezia 2024) dice di  sé  guardando  in  camera : “ molti hanno accostato il mio cinema a Fellini, o  Fassbinder, o a Sirk , tutto ok, va bene, ma io sono  soprattutto  Almodovar”. Questa affermazione icastica – con cui scende in campo per affermare perentoriamente  il suo marchio di fabbrica  di artista  tanto da presentarsi nei titoli di testa semplicemente col  suo cognome  “Almodòvar’ –  invece registra in questo film  una impasse dove non scorgiamo più il fuoco e le svolte  narrative sbalorditive  del Nostro.

Amiamo molto l’autore di opere memorabili che dagli  80 , in una  Spagna appena uscita  dal franchismo,  con le sue storie surreali  lasciava  scorrere  un vitalismo  mai visto, in sintonia  con la  movida , e in cui  le problematiche di  gender e di vite spiegazzate , e storie  e destini che si intrecciavano  vertiginosamente ,  imponevano un nuova visione  di  mondi fin lì mai esplorati .  Vedevamo  situazioni  “che accadono così  solo nei film” , paradossali  e  grottesche,  ma che ci prendevano emozionalmente  e ci affascinavano come  una scarica elettrica.   Dal primo  nel 1980 Pepi luci, Bum e le altre a Labirinto di passioni , da L’indiscreto fascino del peccatoNella seconda metà  degli ’80 questo cinema già effervescente diventa più raffinato e  con una versione del melodramma  comunque unica,  da Matador a La legge del desiderio, fino alla sua prima consacrazione internazionale  con Donne sull’orlo di una crisi di nervi ( 1988) in cui ottiene già  anche una  prima nomination all’Oscar.

Dagli anni novanta  introduce , mantenendo uno stile rutilante, una visione  permeata anche da un’introspezione  psicologica del profondo e  dei legami  edipici , pur proclamando  di aborrire  la psicoanalisi : Tacos Ljanos,  Carne tremula , Tutto su mia madre , fino all’Oscar  per la miglior sceneggiatura  (Parla con lei, 2003) . Si arena con l’autobiografico La Mala Education (2004) in una catarsi  non risolta e raccontata  con forzature   autocensorie   e nel 2011 , La pelle che abito , è un tema di ghiaccio/ horror  e artefatto che non gli appartiene  affatto. Nel 2019  il Leone d’Oro alla carrieraMa in mezzo a questi  due ,  torna trionfante , con le sue storie di donne che sono il cuore del suo universo , con  l’ attrice feticcio per eccellenza , Penelope Cruz ( Volver  2006 , Gli abbracci spezzati  (2009) , Madres Paralelas ( 2021). C’è un’ incandescenza  di passioni e una perfeziona stilistica in queste opere, che  appunto si sposa con una vena a volte hitchcockiana, in un’ equilibrio mirabile  , di colpi di scena  e di emozioni che ti trascina e un suo tratto del tutto originale.

 La stanza accanto invece,  pur con due grandi interpreti femminili, pur nella sua eleganza, e senso della misura ,  lascia a chi lo ha amato un senso di ammirazione , ma anche di sconcerto. Che c’entra veramente  alla fine lui, Almodòvar Pedro , con  questa storia e stile?

Verrebbe voglia di sintetizzare  così  questa sensazione : Almodòvar  nel momento in cui  afferma orgogliosamente  sé stesso, nella sua unicità, la  perde qui , proprio perché dimentica di essere  anche “Pedro”.

Un altro shoot  provocatorio  : Almodòvar senza Pedro non è vivo.   Il fatto è che nella storia del cinema  solo  Stanley  Kubrick è stato   autore  immensamente  polimorfo : tanto da poter  passare indenne  dal Settecento di Barry Lindon,  alla Roma di Tiberio e  Cristo in Spartacus , da  Stranamore  a Shining, da Arancia meccanica a Full Metal Jacket , dalla Vienna  onirica di   Eyes Wide Shut  al  fantascientifico  2001 Odissea nello spazio.  Sempre mantenendo una straordinaria identità autoriale.

Al contrario ,  se di altri grandi autori , come  Fellini, Bergman,  Visconti, Cassavetes   suona ben riduttivo e banale dire che  “hanno fatto sempre lo stesso film”, resta  però incontrovertibile che abbiano attinto ciascuno  al proprio  retroterra culturale  di immaginario e simbolico  e  non ve ne siano discostati , soprattutto  hanno usato sempre lo stesso  linguaggio . In  Fellini, sia che parli di Rimini  che di Roma,  i suoi personaggi  nascono da quei due  humus in cui ha vissuto. E Bergman non potrebbe mai essere slegato  dalle sue lande scandinave e dalla sua inesorabile etica luterana ; per Visconti  poi, valgono  le  radici aristocratiche  e  decadenti nel  suo  teatro e  nei suoi film storico- melodrammatici  da una parte, e  le lezioni neorealiste  per l’altra  sua  anima da “conte rosso” , per cui ha rischiato la vita in un’adesione  sincera  alla Resistenza.  Infine  Cassavetes   col background  newyorkese  e  la forza del suo  cinema indipendente  e sperimentale . Il tutto  si traduceva in un particolare linguaggio non inteso  solamente  come  grammatica, sintassi e lessico , ma strumento che  interagisce  con il modo di pensare  una cosa , che non è più la stessa cosa  se la si astrae in una lingua altra. Ecco,  ad Almodòvar è capitato ora  questo.  La sua unicità incandescente  si è come raggelata passando  dallo spagnolo passionale di Carmen Maura, Marisa Paredes  e  Penelope Cruz  all’inglese  evoluto delle shakespeariane Tilda Swilton e  Julianne  Moore , pur entrambe in odore da Oscar.

Almodòvar ha una grande cultura cinematografica, non solo da cinefilo, ma  persegue con rigore  una dimensione  artistica  e piena di senso del fare cinema.  Con Dolor j  gloria , altro film autobiografico,  si è lasciato andare a tradurre  in film , il suo percorso e le sue riflessioni sull’essenza e possibilità inesplorate del cinema. Ma rimaneva ancora Pedro, ed  era ritornato al suo alter-ego storico, Antonio Banderas. Parlavano la stessa lingua.

Anni prima con la stessa Swinton  si era cimentato con un corto  ne La Voce umana  (di  Cocteau) .  Ma la ‘voce’  francese  che emergeva  non era più quella sua più genuina , ma quella mediata di un grande cultore di cinema,   di cui si padroneggia   le tecniche,  sorretto da un altrettanto  vasta  cultura letteraria  e di pensiero.  Ma lo scintillio dell’arte , quell’insight  che scatta indipendentemente da qualsiasi logaritmo da A.I.,  ora ne La stanza accanto  non riesce a far  scattare  emozioni, malgrado  anche le musiche , siano dello stesso  compositore , Alberto Iglesias  , alla base  di tutte le altre opere importanti del nostro;  ma questa  volta  eccessivamente  ossessive  e dissonanti  dal mood  del film.  Qui è come se  A. sia  voluto  andare  oltre  le sue Colonne d’Ercole,   al di fuori della sua  personale  intima sensibilità  dell’ anima mundi .

Quella lingua di Swinton e Moore non è la sua. E non è una faccenda di  fonemi, sintassi, lessico. Le attrici sono meravigliose , come lo stesso John Turturro,  formidabile  e  misurato  tra l’essere stato nel film l’amante  di entrambe , e assieme  l’intellettuale  riflessivo  e  mai tedioso.  Anche le inquadrature sono perfette, e  così i riferimenti  artistici e le citazioni  (The Dead  di Joyce ), e  il quadro di Hopper  riflettente  ipnoticamente i colori sui visi e gli abiti delle due amiche.  Raffinatissima   anche  la scelta dell’ ideale  dimora  finale  della protagonista Martha , luogo  completamente  altro dai ricordi  e dagli oggetti del passato,  dove poi  abbandonarsi dolcemente in silenzio per viaggiare oltre  , con l’amica a vegliarla nella stanza accanto . E’ Casa Szoke , alle pendici  del Monte Abantos , sotto cui poggia Madrid,  ricco di pini e zone rocciose, con gli interni che richiamano la foresta in cui è immersa.   E  Julianne  Moore è trepida  e controllata  come lo era In Safe e Lontano dal paradiso  dell’americano  Todd Haynes.  Ecco, questo film  avrebbe potuto essere diretto anche meglio da lui. Il tema della morte , quello di un’eutanasia dolce e colta , era già stato ben affrontato  nel 2003 con Le invasioni barbariche,  (Oscar 2004  miglior film straniero)  del franco-canadese  Denys  Arcand.   

Almodovar  ha nel suo film  tratto solo un segmento del  libro  What  Are You Going Through, 2020 (in italiano  Attraverso la vita), della newyorkese  73nne  Sigrid Nunez, che ha ripreso un frase di Simon Weil ( “l’amore verso il prossimo  nella sua pienezza  significa essere capaci di dirgli sempre ‘ che cosa stai attraversando?’ “). I dialoghi e la storia  tra un’affermata  scrittrice ( J. Moore) e  l’antica  amica  con cancro terminale (T. Swinton), divenuta celebre reporter  di  guerra  per il NYT ( erano da ragazze  colleghe per la stessa testata)  è  quella da  cui Almodòvar ha tratto soggetto e sceneggiatura.  E  lo spirito del libro è  recuperato proprio in questo dignitoso coraggio  che supera il dolore, e questa capacità di  ascoltarsi  e raccontarsi a vicenda, con ironia ed empatia  -anche  nell’aver avuto , senza segreti né competitività, lo stesso amante  ‘perfetto’ –  potrebbe essere anche un film alla Bergman. I dialoghi tra le due donne sono esemplari  , ma alla fine , malgré tout,  purtroppo  non scatta  nessun pathos veramente, e nemmeno nessun eros, e neanche struggimento :  e pathos ed eros e struggimento sono il substrato sanguigno di cui è intriso tutto il miglior cinema di Almodovar. Il linguaggio  tutto inglese nei toni, modi , espressività contenute in questo meraviglioso scambio tra due grandi attrici , addita un paeseaffascinante, dove  Tilda Swinton decide di lasciare la vita terrena, ma questo  per noi  “ non è un paese per Pedro”.

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