La sottile lingua rossa

Ha ragione da vendere Dario Caselli quando descrive questa città come piena zeppa di paraculi. Ma ci permetta di eccepire che gli atteggiamenti di omologazione non sono solo caratteristici di una parte piuttosto che l’altra, di un colore politico specifico o di una maggioranza rispetto alle minoranze. Il problema dei problemi, che è trasversale ad ogni ambiente socio-istituzionale di casa nostra, è la assoluta incapacità e volontà di confronto e la negazione di ogni attitudine autocritica dei e nei rispettivi gruppi di riferimento. Questa generale propensione alla conventicola di bassissima prospettiva, già ampiamente dimostrata dalla decadenza del nostro modello organizzativo, è messa in risalto in modo plateale dall’uso e dai meccanismi insiti nella gestione dei social network.

Qui le dinamiche sono chiarissime: la paura di uscire anche per un attimo dal seminato (laddove la semente è sempre quella altrui e di assodata stagionatura) è tale che il singolo aspirante a qualsiasi ruolo pratica con scientifica precisione e inconscia lucidità, l’arte dell’autocensura. Non sempre e comunque per scarsità di materia intellettiva o della benché minima capacitò di analisi, ma soprattutto per timore delle possibile conseguenze. Quelle, ipotetiche ma neanche tanto, di essere piano piano estromesso dai giochetti di residuo poteruncolo da cronaca di fine impero. La sottile lingua rossa del paraculo infatti, specie davanti a questa netta e progressiva frammentazione di organizzazioni fino a ieri plenipotenziarie, adotta una tecnica affatto differente rispetto a quella del leccaculo un tempo primeggiante.

Mentre la perizia del leccaculo è quella di accontentare o la sua parte o il maggior numero di parti possibili, quella del paraculo è quella di non scontentare affatto la propria parte o, vista la predetta rarefazione di punti di riferimento e la conseguente moltiplicazione di combriccole, di non dispiacere al maggior numero di congreghe possibili. Che non si sa mai. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, o almeno è evidente alla sensibilità dell’opinione pubblica: l’uniformazione di ogni parere davanti ai fatti, o presunti tali. L’atteggiamento culturale che produce è simile (si badi bene, si parla di atteggiamento o silente o censorio e non di interessi reali) a quello delle comunità mafiose. Quelle stesse aberrazioni organizzative che a parole, naturalmente all’unisono, si grida di voler debellare

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