La rivoluzione dei diti medi – Io e Falcone

La rubrica settimanale di Eugenio Azzinnari. Scorretta, inutile, dissacrante e provocatoria

Aprii la porta, un raggio di sole si districò tra le serrande facendosi spazio a fatica nella stanza buia. Lo incontrai, comodamente seduto su una sedia, con le gambe accavallate, la sua sigaretta e il suo sorriso sornione sotto i baffi. Innanzi a se, sul tavolo, una cartellina rossa raccoglieva ordinatamente una pila di documenti  vicino ad un bicchiere d’acqua, un posacenere, e degli occhiali. Quando incrociò i miei occhi, attoniti e sorpresi, il suo viso si ravvivò di un sorriso pieno, poi con cortesia e garbo mi invitò a prender posto. Ero in balia delle emozioni, uno stormo organizzato di sensazioni aveva invaso lo stomaco risalendo sino al petto e impedendomi di pensare. Ero di fronte a Giovanni Falcone. Ero di fronte ad un eroe. Forse il più grande della storia moderna italiana. Non riuscii a trattenere le lacrime, quacuna cadde sin dagli zigomi. Il suo sguardo fisso e rassicurante riusciva comunque a valicare le mie sensazioni riportandomi alla tranquillità, poi prese l’inziativa: “Non ho molto tempo, muoviti! ”. Mi strappò un sorriso e questo bastò a rompere il ghiaccio. Sapevo di aver poco tempo, dovevo giocarmi bene le mie domande, ero consapevole che non avrei mai più avuto la possibilità di rincontrarlo.

Così, prendendo coraggio, ebbi forza di sostenere il mio sguardo con più decisone e fissandolo negli occhi gli feci la prima domanda: “Lei è diventato il simbolo dell’Italia di cui esser fieri, che significato hanno avuto le sue battaglie?” Giovanni Falcone accolse la domanda con una espressione più seria, accese un’altra sigaretta, favorì un breve momento di silenzio poi rispose: “Le mie battaglie, insieme a quelle di Paolo, sono servite a tanto, sono servite a niente. La mafia si poteva combattere e si può combattere. Non abbiamoo lottato contro la mafia per diventare degli eroi, abbiamo portato avanti le nostre battaglie perché entrambi, io e Paolo, eravamo due servitori dello stato, due servitori della società. Il senso del dovere è conseguenza essenziale del mio lavoro. Ho lottato contro Cosa Nostra, poi, perché sono stato coerente con me stesso: io sono siciliano. Non avrei potuto fare altrimenti. Il siciliano è il peggior avversario per il mafioso, perché il primo è immerso nella cultura del secondo, ne conosce il lessico delle piccole cose, i gesti e i mezzi gesti. Insomma, si può combattere al meglio contro la mafia conoscendola e comprendendola direttamente.

Tornò il silenzio ma, poco prima che tornasse a parlare, lo incalzai: “Lei ha vinto la battaglia con Cosa Nostra?” Giovanni Falcone tornò al suo sorriso sornione, abbassò lo sguardo, poi replicò: “La mafia non è affatto invincibile. Si tratta di un fatto umano e come tutti i fatti umani ha avuto un inizio e avrà anche una fine. Ma è un fenomeno di una densità imponente, ragione per la quale si può vincere non pretendendo l’eroismo dai cittadini inermi, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori dello Stato. La lotta contro Cosa Nostra, inoltre, non può fermarsi a una sola stanza, ma deve coinvolgere l’intero palazzo. All’opera del muratore deve affiancarsi quella dell’ingegnere. Se pulisci una stanza non puoi ignorare che altre stanze possono essere sporche, che magari l’ascensore non funziona, che non ci sono le scale. Ad esempio, io sono andato a Roma per contribuire a costruire il palazzo. Ma non mi hanno dato il tempo per vederlo ultimato.”

Il tono della sua voce, in queste ultime parole, si fece più delicato quasi condizionato da una crescente commozione. Rialzò gli occhi, come se volessero intercettare, tra i miei pensieri, l’unica domanda possibile a cui volesse rispondere. Domanda che prontamente gli posi: “Lei crede che lo Stato, allora, non abbia impiegato le forze migliori? O crede che questa battaglia non l’abbia mai combattuta veramente?”. Giovanni Falcone rispose prontamente: “ Lo Stato ci ha lasciato soli. Ci ha isolati. Il problema è stato l’isolamento. La storia della mafia insegna, infatti, che la criminalità organizzata colpisce la vittima nel massimo momento del suo isolamento. Chi perché ha battagliato politicamente (come nei casi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre), chi perché ha scritto troppo (ad esempio, Giuseppe Fava e Mauro De Mauro), chi perché ha lavorato bene. Cosa Nostra uccide la gente dopo che è rimasta sola o dopo che è entrata in un gioco troppo grande; perché non ha le alleanze opportune o perché ha perso i sostegni fondamentali. Si sa che da noi la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere. “

Piombò di nuovo un silenzio surreale, il fumo della sigaretta si sollevava pesantemente incrociando quello sparuto raggio di sole che imperterrito si faceva largo nella stanza. Dovevo recuperare ritmo nella nostra conversazione e, sebbene un gravame di tristezza e rabbia crescesse dismisuratamente nel mio petto, ebbi forza per un’altra domanda: “Cosa è cambiato oggi rispetto ad allora? Come possiamo battere la mafia?”. Giovanni Falcone, ritrovò sicurezza ed entusiasmo, penetrò nuovamente nei miei occhi poi replicò: “La mafia. oggi, rispetto ad allora, si è evoluta, è più forte, più radicata, più globale, più furba. Non ha più bisogno di spargere sangue ma non è detto che sia meno presente o pericolosa. La mafia oggi è un cancro silenzioso da Nord a Sud, con metastasi nelle istituzioni, nei palazzi di Roma, nelle aziende,  nella società. Oggi è cambiato tutto, oggi non è cambiato niente. Oggi, Leoluca Orlando, è sindaco per la quarta volta a Palermo… debbo aggiungere altro? ” Si lasciò andare in un altro sorriso dei suoi, sornioni e beffardi, colmi di ironia e rabbia, ma non volle andare oltre.

Tornai allora alla domanda a cui tenevo di più: “Come possiamo lottare oggi contro la mafia?” Falcone rispose con tanta energia, un’energia tale da sciogliersi in un brivido che sferzò la mia pelle: “Ti rispondo con una frase di Paolo: Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola. Non andò oltre, si sollevò dalla sedia, mi strinse la mano e non si concesse ad altre parole.  Mi lasciò così,  solo nella stanza, con i miei pensieri e con queste ultime parole che tuonavano forti tra i miei pensieri

Il sogno s’interruppe al suono della sveglia, ebbi pochi secondi per realizzare che tutto fosse stato solo un sogno. Mi resi però conto di avere ricevuto l’insegnamento più interessante di tutta la mia vita. Perché forse la lezione più grande che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ci hanno lasciato è stata proprio quella di non arrendersi  e, soprattutto,  di non aver avuto paura, continuando a lottare, con coraggio, contro tutte le mafie. Solo così e solo da noi, può nascere la speranza di poterne uscire vincenti.

La rivoluzione dei diti medi, Reggio Emilia.

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