La riforma di una scuola irriformabile

Per tutta l’estate siamo stati a baloccarci con le notizie, sempre più strambe, sempre meno comprensibili, sulla riforma della scuola voluta dal nostro audace Rottamatore di fiducia; leggi, leggine, notizie e notiziole, polemiche e spot elettorali, tanto che alla fine abbiamo perso di vista l’unico punto importante: la scuola stava ricominciando.

Un bel mattino ci siamo messi in strada con la solita fiducia estiva nei tempi di percorribilità a misura d’uomo, per restare subito incastrati nel traffico ingrossato dall’ondata di piena dei genitori nevrastenici col bambino semiaddormentato a rimorchio: sarà il concerto di Ligabue? Sarà chiusa l’autostrada? Stanno fuggendo dall’avanzata dell’Armata Bianca cosacca?

Poi, un occhio distratto al calendario ci fa capire che le precedenti ipotesi erano decisamente ottimistiche, e che ci aspettano altri nove mesi di imbottigliamento. Capiamo che la scuola è finalmente aperta dai volantini affissi sulla cancellata che proclamano già il calendario degli scioperi e delle assemblee, per una media di un giorno ogni sette, una specie di esercizio di creatività per ottenere, in barba agli orari, la settimana corta, come gli operai.

E a proposito di orari: quale mente possa mai aver stabilito che, in un mondo in cui chi lavora deve timbrare il cartellino alle 8:00 l’ingresso dei figli debba avvenire alle 8:15 non ci è dato sapere, ma certo deve essere stato qualcuno dotato di una intelligenza così maliziosa che avrebbe fatto impallidire di piacere il Dottor Moriarty. Seguono ovvie lamentele dei genitori, che chiedono a mani giunte, in ginocchio sui ceci e inviando lettere degne della De Filippi ai Dirigenti Scolastici la possibilità di usufruire dell’ingresso anticipato: 7:40, 7:50, quel tanto che basta per scaricare tuo figlio in corsa davanti al cancello e piombare col SUV ai 90 all’ora sui figli degli altri mentre cerchi di raggiungere il posto di lavoro.

Naturalmente, qui si apre un capitolo doloroso in cui i fronti contrapposti sono acerrimi nemici: da un lato quanti vorrebbero che i pargoli fossero presi in carico dalle 7 alle 19 dalle Istituzioni, lavati, calzati, vestiti e lavati e pure istruiti ed educati a costo zero, in modo che chi lavora possa portare a casa di che vivere e chi no sfracellarsi di aperitivi al bar per tutto il giorno; dall’altra, quelli che difendono il ruolo della Scuola in quanto posto in cui i giovani vengono istruiti e certamente non allevati, altrimenti il tuo erede se vuoi così lo metti poi al collegio, o in convento, a seconda della tua indole e disponibilità economica.

I nostri nonni e genitori non avevano dubbi: di sicuro in Seminario. Costava meno, e al massimo usciva un prete in famiglia che male non faceva. Oggi, al contrario, nonostante le ore di religione siano più di quelle di matematica, non si assiste ad un aumento sensibile delle vocazioni. I fronti contrapposti, naturalmente, sono tali solo in Paesi ridotti al Welfare del Nulla come il Nostro Amato Suolo: altrove, si ritiene che effettivamente se si vuole dare alla famiglia una possibilità di mantenersi e magari anche incidere positivamente sulla crescita demografica forse è meglio dotarsi di strutture in grado di venire incontro ai genitori senza derubarli, ma tant’è, siamo un popolo di poeti, noi.

Dalle finestre di ogni casa si levano lamenti circa il costo dei libri, il costo dei contributi scolastici, il costo della mensa e il costo di tenersi il figlio a casa come alternativa; inframmezzate dalle urla delle esortazioni a fare i primi compiti (sempre troppi, come da programma) e le esclamazioni di giubilo quando vieni invitato al ritrovo dei genitori in pizzeria per celebrare gli alunni della classe di qualcun altro, mentre i gruppi WhatsApp delle mamme trillano h24 progettando elezioni di rappresentanti e shopping di gruppo all’Outlet la domenica e le insegnanti tirano già idealmente fuori il nuovo bikini per la gita scolastica che quest’anno, potenza dell’autogestione, piazzeranno a Riccione, vantandone le proprietà educative. E guai a lamentarsi, che la prossima potrebbe essere al Casinò di Riga.

Noi, intanto, andiamo sospirando col ricordo ai giorni in cui ci sbattevano fuori di casa e raggiungevamo da soli a piedi le aule a chilometri di distanza, seguiti passo passo dai vicini di tutto il quartiere, i nostri cuori di bimbi lieti come quelli degli alpini della Julia in ritirata e il passo ugualmente ritmato e greve sotto il peso degli antidiluviani zainetti contenenti 20 Kg di abbecedari; una vita di facchinaggio, fino a quando un tizio non ha pensato bene di mettere le ruote alle borse mandando in pensione tutti i facchini del mondo.

Oggi, ritorniamo nostalgici a quei pensieri assistendo, sconcertati, allo spettacolo degli inserimenti scolastici che, dall’asilo in cui erano nati, si sono allargati oggi – orari, compresenze dei genitori, somministrazione di Valium – fino alle elementari e alle medie e domani, chissà, all’Università; oggi mamme piangenti di figli di undici anni, domani giovani spose col fazzoletto bianco a salutare i futuri ingegneri e, perché no, inconsapevoli insegnanti.

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