Reggio Emilia – Amnesty International è un’organizzazione non governativa il cui scopo è promuovere il rispetto dei principi sanciti nella Dichiarazione universale dei diritti umani; conta oltre sette milioni di soci sostenitori. Ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1977 e l’anno seguente il Premio delle Nazioni Unite.
Amnesty International opera in favore delle persone incarcerate per motivi di coscienza e si oppone alla tortura e alla pena di morte. Pubblica un interessante bollettino trimestrale con informazioni sulle violazioni e le crisi umanitarie in varie parti del mondo. L’ultimo numero del 2018, ad esempio, tratta dei trasferimenti illegali in Israele, delle responsabilità delle forze armate nei crimini, nella vera e propria pulizia etnica contro i Rohingya in Myanmar, della drammatica situazione nello Yemen. Ma anche dei passi in avanti verso una società più umana in alcune parti del mondo.
Particolarmente interessante il breve articolo di Riccardo Noury: “Che succede a casa loro?”. Ne riporto una parte con qualche commento. Nel gennaio di quest’anno dalla Libia è partita un’imbarcazione con a bordo 150 somali ed eritrei fuggiti da guerra e repressione; erano salpati dal porto di Aden, nello Yemen, per tornare nei loro paesi. Uno dei trafficanti a bordo si mise a sparare, l’imbarcazione di capovolse e oltre trenta persone annegarono.
Lo Yemen, paese povero e oggi travagliato da una guerra, ospita quasi 300mila rifugiati. L’Uganda ospita oltre un milione di rifugiati. Il Bangladesh, paese poverissimo, tiene le frontiere aperte ai Rohingya in fuga dal Myanmar; la prima ministra Sheikha Hasina ha detto alle Nazioni Unite, “Siamo un paese povero e cerchiamo di sfamare i nostri 160 milioni di abitanti; se ce ne sarà un milione in più, sfameremo anche quello”.
Dunque non la ricca Europa dei muri, dei respingimenti e delle discriminazioni, ma paesi del Medio Oriente, dell’Africa, dell’Asia. Coloro che fuggono dalla guerra o sono allo stremo per la fame vivono nell’illusione di poter un giorno tornare a casa loro. Sono loro che vogliono tornarci, ancor prima che noi vogliamo mandarceli.
L’11 luglio il Ministro dell’interno della Germania si è vantato di aver rimpatriato in Afghanistan 69 persone; appena atterrato uno di questi si è impiccato: aveva 29 anni, era in Germania da quando ne aveva 15.
Un tweet a commento del Rapporto 2017-2018 è più incisivo di cento dibattiti: “Chi era nelle condizioni di farlo, non ha impedito i morti. Chi è nelle condizioni di farlo, non aiuta i vivi.”