La pubblicità ai tempi di Web 2.0

download (4)Non ci siamo ancora abituati alla definizione di Web 2.0 (alzi la mano, chi la conosce, in realtà?) che già i soloni si stanno accapigliando sul prossimo slogan da portare alle videoconferenze: Web 2.1, o Web 3.0? A noi, che ne godiamo semplicemente gli effetti senza star lì a far tante questioni di lana caprina, in fondo la questione appassiona fino a un certo punto. In compenso, visto che oltre a godere della tecnologia la subiamo, anche, con un po’ di fantasia possiamo trovare il modo di preoccuparci di cose del tutto nuove: il mondo della pubblicità 2.0 è insopportabile, il futuro come sarà?

E’ vero: forse la cosa ci appare in tutto il suo peso perché siamo figli di un altro secolo (alla lettera), di tempi in cui la massima espressione della pubblicità erano quegli sketch che per Carosello ci tenevano impegnati una mezzoretta alla sera, e solo se facevamo i bravi (e poi, a letto). Gli abitanti del Pianeta Papalla, Giò Condor che tutti poi abbiamo capito tardi cosa in effetti avesse scritto sulla fronte, i mal di stomaco di Arigliano, la teutonica mano del Petrus Bonekamp, la storia d’amore alla caffeina di Caballero e Carmensita: forse nei pubblicitari c’era ancora più l’idea di intrattenere che quella di vendere, o forse era un modo per educare all’acquisto le nuove generazione tramite ipnosi progressiva.

Fatto sta che compravamo, sì, ma compravamo meno di quanto avremmo potuto (risparmiavamo) e col cuore più leggero guardavamo gli spot. Poi, la seconda generazione: la magnificenza anfetaminica del cavallo Vidal, i primi pruriti delle bionde Peroni e delle distillatrici di grappe, via la testa, via la cosa, verso le 21 si intravvedono le tette, gente che si nutre di Olio Sasso e salta ogni ostacolo, anziani che bloccano il traffico mentre si alcolizzano sereni sul loro tavolino.

E poi via via i pennelli grandi, quella serva decisamente maiala di Giovanna mentre vernicia la ringhiera, la padrona di casa bastarda che ti serve il Ronco e lo spaccia per Brunello. Ma eravamo ancora allo sketch, alla storiella: e chi se ne lagnava non poteva sapere quanto l’avrebbe rimpianto. Oh, non poteva sapere. Adesso siamo al punto in cui sei lì che guardi l’ultimissimo sorpasso del Moto GP e all’improvviso lo schermo diventa cm. 3×3, lasciando spazio al resto del televisore entro il quale si consuma il dramma di una mamma che ha bambini che pisciano ettolitri di plin plin, di cani che non vogliono più le vecchie crocchette, delle prodezze dell’ultima utilitarietta da ventimila Euro; finisce lo spot, e ti sei perso chi ha vinto. Un telefilm medio, diciamo un’ora, e ti ciucci venti, venticinque minuti di spot.

Guai a te se ti guardi i reality di Cielo, poi, per dire. Ma non è ancora niente; perché il campo di battaglia non è più la televisione, mezzo davanti al quale stiamo tutto sommato ben poco, ormai. No; viaggia assieme agli strumenti che viaggiano sempre con noi, computer e televisori. Non è che la pubblicità sul giornale di carta si legga di meno: è che per ogni ora che puoi passare al bar a leggerti il quotidiano, ne passi altre trecento attaccato ad uno schermo, piccolo o grande che sia. E’ questo il piccolo Segreto di Fatima dei pubblicitari, quello che ha decretato la morte in edicola di signore testate, quotidiani e periodici coi contro cosi, e ha portato alla nascita dei loro epigoni Web spesso di qualità e contenuti scarsi o scarsissimi (si vedano ad esempio Repubblica o Wired, tanto per non fare citazioni).

E cosa altro portate sempre con voi? Il telefono? Ecco, appunto. Forse vi è già capitato che, al fisso o al cellulare, qualcuno vi abbia già contattato per vendervi qualcosa. Forse. Tipo, al punto da farvi abituare a lasciare il telefono staccato e a non rispondere più al cellulare se prima non vedete la foto di chi vi chiama. Può darsi che vi perdiate l’occasione di rimorchio della vostra vita, ma ne vale la pena, piuttosto di ascoltare il millesimo operatore telefonico della giornata. Apri Facebook e ti invadono. Apri Youtube e ti devi sorbire un lunghissimo minuto, o pagare. Praticamente, siamo al riscatto. Apri Twitter, aggiungi un contatto e l’istante successivo ti chiede di comprare il suo libro, immancabile.

La prevedibilissima conseguenza è che smetti di comprare qualsiasi cosa, perché vai rapidamente in saturazione da spot e, anzi, finisci anche di frequentare il mezzo (ricordate il telefono fisso?): e la pubblicità ottiene l’esatto contrario di quello a cui serviva. Per cui, paradossalmente, oggi spiccherà molto più quella sui giornali cartacei che quella online, anche se il numero dei click è superiore. Poi qui ci sarebbe tutto un altro grande discorso da fare, quello legato all’effettivo ritorno dell’investimento e alla veridicità dei dati spergiurati, ma magari ce lo teniamo per un’altra volta. Per stavolta, ci limitiamo a pensare uno scenario in cui per venderci i prodotti il Web 3.0 arriverà direttamente, invece di cercare di attirare la nostra attenzione, a ipnotizzarci o a inserirci i comandi nel cervello, come faceva il memorabile razzo craniale del cartone di Bruno Bozzetto, “Vip, mio fratello Superuomo”.

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