In attesa delle scelte dell’Academy per il premio Oscar 2024 nella notte di domenica 10 marzo, che seguono, come ben si sa, logiche ben diverse da quelle di una sempre auspicabile meritocratica assegnazione, è indubbio che questo film della francese Justine Triet , è uno dei prodotti di valore destinati a lasciare la sua impronta. E già lo dimostra il consenso di pubblico e di critica che si rivela anche in Italia, benché siamo a oltre 4 mesi dalla sua uscita. Questo film che pur ha vinto a Cannes a larghissima maggioranza l’ultima Palma d’Oro nel maggio 2023, paradossalmente non rappresenterà la Francia all’Oscar del 10 marzo, e non potrà quindi concorrere come miglior film internazionale di lingua non inglese. Al suo posto la commissione transalpina gli ha preferito The Taste of Things , film storico-culinario-in costume del regista di origini vietnamite Tran Anh Hung, con Juliette Binoche nei panni di una grande cuoca di fine 800. Ci ha pensato comunque motu proprio l’Academy a nominare il lavoro di Triet a ben cinque categorie : oltre al fatto di essere stato appena premiato dall’ Oscar della critica ( il Golden Globe). E trionfato all’European Film Awards, ai Bafta, ai César. Il fatto di essere parlato in inglese dalla protagonista (sottotitolata) , e per tratti importanti e decisivi, avrà fornito anche legittimità tecnico-giuridica , ma lo spessore dell’opera, come evinto dai Golden Globe, è tale da superare anche questo impasse.
Il segnale è che , dopo un triennio assai opaco, l’ Academy sta tornando verso una qualità complessiva che arricchisce di valore le cinquine finali e poi la scelta per il miglior film in assoluto (questo eletto tra 10 finalisti). Probabilmente alla fine, per l’assegnazione delle statuette il 10 marzo, la parte del leone la faranno le corazzate di lungo e clamoroso corso come Oppenheimer , Barbie, e il fin troppo chiassoso Poor Things . Ma il fatto che questo della Triet sia presente comunque tra i candidati alla vittoria finale (in categorie cruciali come miglior film, e poi ancora, in ordine , migliori regia, attrice protagonista, sceneggiatura originale, montaggio) significa una notevole inversione di tendenza , che viene confermata anche dal fatto che , un altro film di riaffermata raffinatezza e autorialità, Perfect Days di Wenders, è candidato al miglior film internazionale. E lo stesso Kiarostami col suo gioiello apparentemente minimalista Foglie al Vento, è stato ad un soffio per entrare nelle nomination finali e continua ad avere , come il film di Wenders, riscontri importanti di pubblico e critica.
E’ molto strano perché Anatomie d’une chute è tutto fuorché un film piacione. E si presenta con i crismi del legal drama o detective-movie , con i rivoli e le reiterazioni di precedenti celebri. E parrebbe all’inizio avvicinarsi a questo modello. E noi all’inizio a chiederci: ma come farà così a durare 2 ore e mezza? Semplicemente perché il film pur non derogando al genere lo prende in parola , potenziandone la carica con nuovi strumenti digitali e soprattutto un nuovo linguaggio e infine stravolgendolo: e così l’anatomia di un presunto omicidio diventa l’anatomia del carnage psicologico di una coppia. E il bello è che senza accorgersene ci siamo tutti dentro, riesce a farci sentire ognuno partecipe, ma non di un semplice giallo, da legal thriller, ma della vita vera che trabocca dalla storia e dalla credibilità degli attori. Tutti formidabili.
Malgrado tutti gli elementi che la Triet e il suo compagno e co-sceneggiatore Arthur Harari ci mettono sul piatto per complicarci la vita e l’identificazione : questi tratti ci dovrebbero far percepire i protagonisti come appartenenti a un segmento elitario e distante da noi. Giacché gli autori si prendono subito un grosso rischio : cioè la coppia è formata da due intellettuali, entrambi scrittori. Ma in questo caso il frustato è lui, e la vincente lei . Quindi è presente una competitività oggettiva , e ci si comincia a preoccupare che questi due ci trascineranno così in dialoghi astratti da radical chic e logorree varie . E invece no . Come vedremo poi meglio la storia scorre via “ come un treno veloce nella notte”, come ben auspicava Truffaut.
E poi pensiamo alla location. Non il massimo per movimentare le cose. Una baita innevata sulle Alpi francesi che dà subito un effetto Fargo, senza mai essere connotata dal grottesco espressionista di cui era permeato quel capolavoro dei Coen. In Anatomie d’une chute gli unici testimoni della morte dell’uomo riverso nella neve col cranio fracassato, precipitato dal balcone nei pressi della baita (come, chi, quando, perché?) sono un bimbo , Daniel, (figlio del morto) e il suo cane, un terrier collie. Solo che il ragazzino di 11 anni è quasi completamente cieco, con l’effetto indotto dalle luci sapienti e geniali di Simon Beaufils , che riesce a definirgli uno sguardo spento, glauco come quello degli ipovedenti, e il cane non brilla nemmeno lui di ipercinesia : è un cane adatto al suo compito, ma proprio per questo si adegua al deficit del suo umano, e ha movimenti lenti, quasi spenti, e alla fine del film vediamo che il cane ha lo stesso sguardo acquoso del ragazzo.
Eppure proprio da questi due “sfigati” ci sarà la scintilla decisiva , come rivelazione di punti di vista determinanti per la storia : loro alla fine “vedono” quello che altri non possono. E quello che “vedono” riesce a far assolvere la madre. Ma il finale rimane aperto. Questa storia , chiusa processualmente, esistenzialmente non sarà mai conclusa. E il bello è che comunque resta difficilissimo identificarci con quello sguardo , addirittura il bambino sembra posseduto da tratti autistici tipo sindrome di Asperger. Il cane poi, da spento diventa nel momento cruciale addirittura moribondo , quasi stecchito. In realtà la storia, che è deviata verso il dramma / carnage di coppia, dovrebbe tirare avanti e perdersi in una pericola verbosità , ma non arriva nemmeno alle stilettate terribili tra Liz Taylor e Richard Burton in Chi ha paura di Virginia Woolf ?. E l’acme del momento di verità in cui i due coniugi si rinfacciano le reciproche mancanze ed egoismi , e tensioni, non produce certo un muccinismo di urla e stravolgimenti del viso e di toni violenti fisici e verbali. Qui tutto è più contenuto ed echi più spinti ci arrivano solo fuori campo e molto attenuati : l’infrangersi di un calice su un mobile , i pugni di lui al muro, un ansimare soffocato in sottofondo, ma nessuna colluttazione è avvenuta, e la donna ammette poi che è stata solo lei a schiaffeggiare lui. Non abbiamo nemmeno lo scavo ossessivo di Scene da un matrimonio di Bergman , e neanche gli scorticamenti e le evidenti modalità che definiscono un soggetto femminile patologicamente provato come è quello di Gena Rowlands in Una moglie, del suo grande marito Cassavetes. Senza le punte e le asperità di tutti questi celebri precedenti. Assistiamo a una storia di un conflitto tra l’ambizione frustrata di lui, e la stronzaggine di lei ( così letteralmente Trier definisce il personaggio di Sandra Huller).
E malgrado ciò , tutto questo emana vita vera, ci parla a tutti. Il motivo ? Perché anzitutto è scritto magistralmente nella sceneggiatura. Lungi da cadere in intellettualismi e gergalismi tra due scrittori in competizione, i dialoghi tra i due coniugi in crisi diventano avvincenti e chiarissimi e alla fine ogni parola ci cala addosso , ora bollente ora cristallina e avvertiamo ogni volta il caldo e il freddo di un rapporto complesso , ma non banale, fatto di esigenze vere, problemi veri, dolori condivisi : l’incidente al figlio per il quale è diventato a quattro anni quasi cieco , il senso di colpa del padre, la sincerità della madre nell’ammettere le sue difficoltà di coppia, e le sue pause per le quali ha avuto due storie omoerotiche, l’utilizzo da parte sua di un passo del libro mai completato del marito, al quale ha chiesto il permesso di inserirlo nel suo, divenuto invece un romanzo di successo, e ora lui lo rinfaccia a lei.
L’operazione che Triet e Harari è ancora più complessa e rischiosa, perché i due dialogano per lunghi tratti in inglese, giacché lei , tedesca , non riesce a pensare in francese e hanno scelto questa lingua intermedia per comunicare. E lei si esprime così anche quando ( sempre sottotitolata) depone in aula durante il processo. Anche qui il risultato paradossalmente è un rafforzamento di verità e di potenza espressiva. E qui emerge la bravura di Sandra Huller che è credibile, ben provata da quanto subisce nel percorso della sua messa in accusa, ma mai fuori controllo con pianti e gesti eclatanti. L’opposto della diva. Ma è davvero superba .
Qui è addirittura in concorso per due Oscar : il primo per questo Anatomia d’una caduta , come migliore attrice protagonista ; ma contemporaneamente ne La zona d’interesse, sempre in concorso per il miglior film, è l’incredibile moglie del protagonista, che è poi il direttore di Auschwitz ( “la zona di interesse”). Ma lei brilla di luce propria. Non ha particolari doti di avvenenza. E’ una biondina minuta non vistosa. Colpì moltissimo già quando 7 anni prima aveva interpretato la figlia di Toni Erdmann nell’omonimo film di Maren Ade che sfiorò nel 2017 l’Oscar. Non era la protagonista , ma alla fine è lei che ti rimane impressa. Non è simpatica. E non fa nulla per esserlo. Lì era una donna in carriera , o che almeno aspirava ad esserlo. Memorabile tra le altre il modo e lo stile , mai visto al cinema né prima né dopo , con cui di fronte a uno spasimante , lo fa letteralmente sbavare sul divano mentre cerca di prenderla e poi lo ridicolizza lasciandolo umiliato sul più bello.
E’ chiaro che la Triet ha pensato a lei per il suo personaggio e vi ha trasferito queste caratteristiche nella sua storia. Huller ha un viso enigmatico, con gli occhi azzurri che in momenti particolari si chiudono a fessura, come quelli di una gatta cheta che ti fissa magnetica e misteriosa. Ma nella storia non è una fredda calcolatrice , pur avendo indubbie doti manipolatorie. La sua sofferenza per il rapporto col marito è autentica, come confesserà l’autenticità dell’amore che ha provato per lui, per il quale ha sentito subito di aver trovato la condivisione e l’attrazione tra due anime gemelle. Ed è durato un quindicennio. E quando il processo è finito, e lei scagionata, dopo una cena ristoratrice cui l’ha invitata il suo amico avvocato, e dopo l’euforia liberatoria, tra risate e piccoli scherzi, all’ultimo le cala un velo di tristezza; ed è come se, nelle lacrime silenziose che le rigano il volto, ci trasmettesse il rimpianto di quella perdita, e l’aculeo di essere stata comunque agente di sofferenza per questo suo coniuge tanto travagliato, che probabilmente ha deciso di dimettersi dalla vita, non sostenendo più la sua condizione esistenziale da cui non riusciva ad uscire.
Una parola per gli altri notevoli interpreti, tutti splendidamente nella parte. Samuel Theis , anch’egli regista e sceneggiatore, e già Luigi XIV in una serie tv : qui è il marito (Samuel) che dopo il tavolo anatomico dove appare necessariamente già cadavere all’inizio della storia, ha due momenti in cui lo vediamo entrare in campo con Sandra. Triet e Harari riescono a farlo “comparire” nella sua “testimonianza postuma in presenza” al dibattimento sulla sua morte sospetta, e attraverso un escamotage , anche questo temerario , ma riuscito. Immaginano che Samuel registrava a un certo momento i dialoghi con Sandra, col suo consenso, per trarne spunti letterari. L’ultimo, il giorno prima della morte, è rimasto in un file ed è diventato oggetto di dibattimento in aula.
Qui appare teso e vibrante, e offre spunti alla requisitoria del P.M., altro attore di spessore, anche a teatro, Antoine Reinardz, già premio César. E naturalmente significativa la figura dell’avvocato Vincent che sostiene la difesa di Sandra, attraverso Swann Arlaud , figlio d’arte, più volte César, molto impegnato sul fronte dei diritti civili. Vincent stato segreto innamorato di Sandra , ma sempre discreto ha svolto la sua parte con grande misura e rigorosità professionale, sempre due passi indietro, e solo in alcuni sguardi trapela il suo coinvolgimento interiore, ma soprattutto non è piombato con un avvoltoio sulla vulnerabilità di Sandra. Anche all’epilogo i due non si sono mai sfiorati.
Infine il figlio, Milo Machado Graner. E’ sorprendente come si cala nella parte di Daniel, nei gesti propri di ipovedente, anche molto in conflitto tra quello che ha “visto” e “udito”, e il suo desiderio di scagionare la madre. Il suo personaggio cresce nella storia, anche troppo: sembra infatti troppo intelligente nelle deduzioni finali e forse gli fanno usare un linguaggio a volte più sofisticato per quello che è comunque un ragazzo di appena 11 anni.