La mafia “liquida” si adatta ai settori che promettono affari illegali

Intervista a Giuseppe Antoci ideatore del “protocollo della legalità”

In occasione del 32esimo Vertice Nazionale Antimafia tenuto a Firenze dalla Fondazione Caponnetto, abbiamo raggiunto il presidente onorario della stessa, Giuseppe Antoci, per fare un punto sullo stato della mafie in Italia.

Nel 2015 Giuseppe Antoci, allora presidente del Parco dei Nebrodi, introdusse un protocollo per l’assegnazione degli affitti dei terreni, che prevedeva la presentazione del certificato antimafia anche per quelli di valore a base d’asta inferiori a 150.000 euro. Il protocollo, conosciuto come “protocollo della legalità” o “Antoci”,  firmato il 18 marzo 2015 presso la Prefettura di Messina dalla Regione Siciliana e dai 24 Sindaci del Parco, nel settembre 2016 fu esteso a tutta la Sicilia e sottoscritto da tutti i Prefetti dell’isola. Il 18 maggio 2016 Antoci fu vittima di un attentato mafioso, da cui si salvò grazie all’auto blindata e all’intervento della scorta. Il “Protocollo” è stato recepito dal nuovo Codice Antimafia, votato in Parlamento il 27 settembre 2017, e adesso è applicato in tutta Italia. L’ex presidente del Parco dei Nebrodi vive tuttora sotto scorta.

Il 9 giugno scorso, nei pressi dell’hotel a Bologna dove soggiornava per partecipare a un incontro alla Scuola di Pace di Montesole di Marzabotto, sono stati rinvenuti due bossoli nel corso delle verifiche di sicurezza personali previste per Antoci e i suoi familiari in seguito alle minacce di morte che ha ricevuto per avere smantellato il sistema delle truffe sui fondi europei con cui la mafia si arricchiva.

Presidente, la sfida alla mafia è ancora viva, ma alcuni aspetti sono cambiati. Come è cambiata la faccia della criminalità organizzata?

“Il tema dei temi, parlando di mafie, è la staticità o meno di questi fenomeni. Le mafie sono liquide, si adattano ai contenitori. Ce lo insegna la storia: gli anni ’80 furono anni in cui, è ormai acclarato, col terremoto, in Campania la camorra si trasformò in mafia del cemento; gli anni ’90 furono gli anni dei rifiuti, nel senso che le mafie italiane si trasformarono in spa dei rifiuti, business che ancora oggi è sempre, almeno in parte, nelle loro mani; poi, c’è stata la vicenda che riguardò anche me in prima persona, ovvero l’attenzione delle mafie per i fondi europei dell’agricoltura, vale a dire quell’attività che ha consentito di lucrare milioni di euro da fondi pubblici a rischio zero; i clan compresero che quello era un bacino di soldi su cui entrare e le vicende divenute pubbliche, al di là del maxi processo Nebrodi, che è stata una delle operazioni antimafia più importanti nella storia della lotta al fenomeno, maxiprocesso che ha comminato più di sei secoli di carcere, furono una grande prova di efficienza della magistratura, i condannati furono 9 su 10”.

Tirando le fila, qual è il pericolo più evidente in questa capacità di mutamento del fenomeno criminale mafioso?

“Ripartiamo dal dato di fatto, che è quello che i fenomeni mafiosi hanno la capacità di mutare secondo il contenitore. L’altro dato, inquietante, è che purtroppo molto spesso il nostro Paese arriva dopo di loro. Ciò conduce a mettere in atto norme per cose che i mafiosi hanno già compiuto, per infiltrazioni già compiute, in una sorta di rincorsa che non può essere positiva”.

Ma qualcosa è cambiato, in questi ultimi anni?

“Ciò che è sicuramente cambiato è la parte culturale. Incontro migliaia di studenti, fra scuola e università, circa 4-5mila alla settimana. Posso dire di avere un osservatorio privilegiato. Questi ragazzi, su questo tema, ci sono. Abbiamo un dovere, che è una cosa cui Livatino teneva molto, ed è contenuto in questa parola, “credibilità”. Lui diceva “quando moriremo, nessuno ci chiederà quanto siamo stati credenti, ma quanto siamo stati credibili”. I ragazzi che incontro hanno bisogno di credibilità, di un’antimafia praticata. La fondazione Caponnetto in questi anni ha dimostrato di praticare la lotta alla mafia, compiendo studi, report importanti, entrando nei temi, facendo proposte”.

Come si pratica la lotta alla mafia?

“Attenzione, le “prediche” come le analisi, i commenti di esperti, sono necessari, fanno parte di quel movimento culturale importante di cui sopra. Però ci vogliono anche i risultati. Dobbiamo continuare a chiedere sempre, a chi pratica la lotta alla mafia, che risultati ha ottenuto. E’ chiaro che le reazioni da parte dei mafiosi sono pesanti (qualche giorno fa, invitato a parlare a Marzabotto, Antoci è stato fatto segno di una pesante e gravissima intimidazione: nell’albergo in cui soggiornava, coperto da assoluto segreto, sono stati rinvenuti alcuni bossoli ndr), ma bisogna in tutti i modi fare capire che, se anche “loro” non mollano, noi non molliamo. Non molliamo né sulle analisi né sui contributi fattivi che possiamo suggerire come ad esempio sulle norme antimafia. E’ questa, secondo me, la chiave di volta che deve avere un Paese che vuole fare seriamente la lotta alla mafia”.

In questo momento, sembrerebbe che il ventre molle del sistema rispetto alle lusinghe mafiose, si sia spostato, oltre alla politica che è sempre stato obiettivo di corruzione da parte mafiosa per ovvi motivi di potere e di incidenza sulla catena decisionale, alle classi dei professionisti sia privati che pubblici. Cosa ne pensa?

“Le rispondo prendendo a prestito le parole del procuratore Maurizio De Lucia, nell’arresto di Matteo Messina Denaro quando parla di “borghesia mafiosa”. Anche in casi come questo, hanno buon gioco le connivenze e soprattutto, per quanto riguarda i territori non storicamente mafiosi, molto pericoloso si rivela il cosiddetto “negazionismo”, vale a dire territori in cui il sentire comune è del tenore “ma qui le mafie non ci sono”, “ma noi abbiamo gli anticorpi”. Vorrei ricordare, più che le vicende toscane (il riferimento è all’operazione Keu, ma non solo, ndr) sulle quali la Fondazione è entrata in anticipo con i propri tradizionali report, quelle emiliano-romagnole, quando a Reggio Emilia si diceva che la mafia non esisteva. Quando arrivò un grande prefetto come Antonella De Miro, che cominciò a spiccare le prime interdittive, ci fu una sorta di rivolta sociale, in quanto quello era ritenuto dai suoi stessi abitanti territorio in cui la mafia non poteva allignare. Nel frattempo, gli appartenenti alle cosche si infiltravano ovunque, amministrazioni pubbliche, politica, società civile. Così, si è arrivati a celebrare il secondo processo per numero di imputati mai fatto in Italia, che è noto come Operazione Aemilia. L’augurio è che non accada più in nessun lembo del Paese, dal momento che dobbiamo essere in grado di far tesoro dai nostri errori e dalle esperienze passate. Bisogna che sia chiaro: parlare di mafia non significa sporcare un territorio; se si continua a pensare che non bisogna parlare di mafia altrimenti si allontanano gli investitori, va a finire che gli unici investitori che rimangono sono loro e si comprano interi pezzi di Paese”.

In conclusione, il tema della normativa antimafia. Cosa ne pensa e quali riflessioni si sente di consegnare ai vertici centrali del Paese?

“Ciò che ho detto quando, a seguito del gravissimo episodio di Bologna, i vertici del nostro Paese hanno voluto esprimere pubblicamente la loro solidarietà: il tema non è Antoci, il tema sono le norme antimafia di questo Paese, che non vanno toccate, non vanno sfiorate, perché per quelle norme e quelle norme hanno provocato morti. Ecco direi che la prima cosa da fare è rispettare i morti. Per il resto abbiamo tempo per riflettere e per pensare”.

In foto Giuseppe Antoci

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