Firenze – E’ importante tenere vivo il ricordo di quella straordinaria esperienza giornalistica che fu il Nuovo Corriere diretto da Romano Bilenchi che durò otto anni dal 1947 al 1956. I vertici del PCI e soprattutto Palmiro Togliatti vollero che a dirigerlo fosse lui, scrittore e giornalista proveniente dalla Nazione, nonostante che Romano avesse chiesto loro di farlo “a modo suo e con le sue idee”.
Lo racconta lui stesso nella prefazione all’antologia di articoli “Autobiografia di un giornale” che gli Editori Riuniti pubblicarono pochi mesi prima della sua morte, nel 1989: “Sono per il colloquio con i cattolici, per l’unità sindacale, per l’unione delle sinistre, di tutte le sinistre di tutti i partiti, non credo alla dittatura del proletariato che porta per forza alla dittatura della polizia politica. Quindi non vorrei intrusioni che non sopporterei in questi principi basilari”.
Perché si venga a realizzare un’esperienza eccezionale, capace di stimolare e influenzare una generazione di giovani giornalisti, occorre che si verifichino coincidenze eccezionali e che entrino in gioco personalità eccezionali, come Romano Bilenchi.
Una circostanza eccezionale fu in primo luogo la presenza a Firenze di un laboratorio di giornalismo democratico del quale fece parte un gruppo di giovani intellettuali e di giornalisti professionisti antifascisti. Questo laboratorio fu la Nazione del Popolo, organo del Comitato Toscano di Liberazione Nazionale.
Con al vertice cinque direttori espressione ciascuno di una componente politica del CTLN (Carlo Levi Partito d’azione, Vittorio Santoli, liberale, Bruno Sanguinetti comunista poi sostituito dal chimico Luigi Sacconi, Alberto Albertoni socialista e Vittore Branca democristiano) quel giornale fu la palestra nella quale si confrontò il patrimonio ideale della Resistenza e tutte le soluzioni più aperte per la costruzione del nuovo stato democratico.
Il 4 luglio 1946 si scioglie il CTLN, i partiti decidono la sorte della Nazione del Popolo, seconda circostanza eccezionale. Nel capoluogo toscano, infatti, si pubblicava un altro quotidiano che era stato fondato e sostenuto dagli anglo-americani, il Corriere Alleato, che alla fine della guerra era diventato di proprietà del Comune con la testata Corriere di Firenze. In un primo tempo la sua tendenza era moderata, democristiana e liberale, per distinguerla da quella più di sinistra della Nazione del Popolo. Quando il comunista Mario Fabiani conquistò Palazzo Vecchio, i partiti si scambiarono gli organi di informazione.
Così nello stesso edificio della Nazione di via Ricasoli, che ospitava e stampava i due quotidiani, si verificò uno scambio di piani e di scrivanie. La Nazione del popolo, che dovette cambiare testata quando la vecchia Nazione ottenne l’autorizzazione a riprendere le pubblicazioni (si chiamò il Mattino dell’Italia Centrale), passò alla DC; il Nuovo Corriere, il cui nome era stato scelto da Bilenchi che ne divenne il caporedattore (all’inizio il direttore era Fabiani, ma l’anomalia fu presto sanata) al Pci e anche, nominalmente, al Psi e al Partito d’Azione che non avevano risorse economiche.
“Un uomo famoso già giornalista della Nazione che aveva poi lasciato la sua attività di scrittore per dedicarsi completamente al giornale – racconta Ernesto Ragionieri, storico fiorentino che fu un collaboratore del giornale -. Come una missione altrettanto necessaria di educazione e di impegno ideale. Si interessava di tutto, leggeva moltissimo ed era aperto a tutti gli stimoli e idee. Un irresistibile polo di attrazione per tutti noi giovani”.
Nel programma editoriale di Bilenchi, il Nuovo Corriere doveva essere democratico, antifascista, di tendenza ma non foglio di parte. Oggettivo, cioè fedele alla sua missione di organo di informazione. “Non un marxismo clericale, ma un marxismo che ci servisse a cambiare la terra su cui tenere i piedi”.
La conferma del fatto che mantenne fino all’ultimo la sua promessa viene dall’atteggiamento che assunse nei confronti di Giorgio La Pira che prese il posto di Fabiani nel 1951. La Pira esponente della DC era un avversario politico che aveva conquistato Palazzo Vecchio nonostante la buona amministrazione del predecessore comunista, tuttavia – scrive Bilenchi – “in Italia esiste una sola politica giusta e questo principio mi guidava nei riguardi dell’amministrazione La Pira. Il punto è: stiamo dicendo le stesse cose, eliminiamo le nubi che ci dividono e discutiamo, misuriamoci. Il cristianesimo è quello di La Pira o un carabiniere al servizio di interessi ingiusti”.
Bilenchi restò direttore fino a quando il Nuovo Corriere fu chiuso, il 7 agosto 1956, un mese dopo la pubblicazione dell’editoriale “I morti di Poznan”, commento agli episodi sanguinosi di repressione delle rivolte operaie in Polonia, del tutto al di fuori della linea interpretativa che ne dette Togliatti sull’Unità, in un articolo dal titolo inequivocabile: “Presenza del nemico”.
Nella storia del giornalismo italiano restano due grandi eredità dell’esperienza del Nuovo Corriere. La prima riguarda la capacità del direttore di far confluire sulle sue pagine la grande cultura fiorentina che era una grande cultura europea: il comporre idee e visioni del mondo diverse purché fossero democratiche e antifasciste.
Il giornale era aperto al mondo cattolico e a quello laico progressista di Piero Calamandrei e Tristano Codignola. Basta scorrere l’elenco dei nomi dei collaboratori per averne la conferma: Caretti, Procacci, Alatri , Jemolo, Devoto, Bo, Garin, Calamandrei, Barile, De Robertis, Codignola, Aristarco, Ragghianti, Russo, Longhi, Pratolini, Rea, Santi, Novi.
I loro articoli componevano quella che nei giornali italiani per decenni era di nome e di fatto la terza pagina, spazio di riflessione ideale e culturale: “L’intellettuale – diceva Bilenchi – è colui che tesaurizza la conoscenza per metterla a disposizione di un pubblico fatto non di soli addetti ai lavori. L’unico elemento distintivo è la serietà dell’impegno culturale”.
Il direttore del Nuovo Corriere – ha scritto Mario Talli, che partecipò a quella esperienza – “era riuscito a interpretare e soddisfare le aspettative della parte più evoluta culturalmente e politicamente della società toscana”. Quella terza pagina era talmente apprezzata dai lettori di qualunque posizione politica che gli edicolanti spesso la tagliavano dalle copie non vendute e, su richiesta, la inserivano nella Nazione.
Il Nuovo Corriere fu soprattutto una grande scuola di giornalismo e questa è la seconda eredità lasciata dal suo direttore. E’ Augusto Livi che fu un inviato di Paese Sera a raccontare l’atmosfera che si viveva in redazione: “Prestavamo un’opera artigianale quotidiana in cui si rovesciavano i nostri umori con risse e dispetti. Un’attività dominata da un grande centralismo dalla presenza traboccante e dalla disinteressata sopraffazione emotiva e intellettuale di Bilenchi, ma insieme ispirata da un’enorme libertà mentre si impostava il giornale mentre si rimuginava il bisogno di risalire la china del settarismo di scoprire la verità figlia del tempo”.
In primo luogo – diceva Bilenchi – ci deve essere uno stretto rapporto fra un giornale e il tessuto culturale da cui nasce: il vero cronista deve possedere un metodo di approccio culturale alla realtà perché solo questo lo può tutelare dalle furberie, dai provincialismi, dall’ottica parziale o faziosa. Dunque: per raccontare bene bisogna fare uno sforzo culturale, non essere deviato da idee preconcette, mai restare nell’approssimativo, e mantenere una costante capacità di verifica e di critica.
Lo strumento principe per rimanere fedele a questi principi è l’inchiesta: “Il giornalismo è notizia, fatto e l’inchiesta è la più grosso novità, la parola nuova del giornalismo di questo dopoguerra”, ha scritto Corrado Pizzinelli che collaborò con Bilenchi nella rivista Società, nei primi anni del dopoguerra.
Ed è questo il motivo principale per cui il Nuovo Corriere è stato per decenni il mito fondativo di un giornalismo colto, consapevole, critico e rigoroso senza pregiudizi né vanità individuali. Bilenchi ne era ispiratore, formatore di menti e professionalità, con qualcosa in più che non era per tutti ma che tutti cercavano di raggiungere: la scrittura popolare colta. “Un lavoro condotto con impegno e passione febbrili, e con un’accuratezza e parsimonia di mezzi tipiche dell’artigiano, consapevole che, anche nei lavori più ordinari, si può riconoscere la mano (e lo stile) dell’esecutore”, scrive Giuseppe Nicoletti. Anche nelle brevi di nera, anche nella didascalia di una fotografia.
Il direttore del giornale più famoso della sinistra toscana è stato scrittore, testimone e protagonista di una stagione piena di contraddizioni e drammi individuali e collettivi, ma è stato soprattutto uno dei rarissimi esempi di come si può tradurre l’alta qualità del pensiero, l’onestà intellettuale e il talento letterario in un artigianato solido e professionale quale dovrebbe essere il mestiere del giornalista.
Vale ancora il giornalismo alla Bilenchi nell’età digitale dei social e delle fake news? Certo il giornalismo è cambiato profondamente.
Le fonti delle notizie sono aumentate infinitamente, i canali per diffonderle sono a disposizione di tutti grazie a internet. I giornalisti non sono più i gate keeper, cioè coloro che ne controllano gli accessi anzi vengono per lo più considerati gruppi di privilegiati che possono dare giudizi senza che siano stati eletti da nessuno.
La stampa indipendente in crisi strutturale per essere un settore che ha perso i modelli di business che è costretta a ridurre continuamente le redazioni, abbassando conseguentemente la qualità dell’informazione, è sotto attacco da parte di tutti coloro che pensano che una notizia valga l’altra e dunque si offrono coscientemente o inconsapevolmente alla manipolazione e alla strumentalizzazione da parte del potere in qualunque forma si presenti e qualunque interesse rappresenti.
Proprio per questa ragione si dovrebbe riprendere la lezione di Bilenchi, nella prospettiva di una ricostruzione culturale della professione. Del resto i grandi giornali anglosassoni cominciano a pensare al giornalista esperto prima di tutto di etica e di filosofia morale, diverso da quello di oggi come formazione e più articolato e approfondito nei suoi principi deontologici.
La figura di Romano Bilenchi giornalista verrà ricostruita sabato 30 novembre 2019 presso il Museo San Pietro di Colle Val d’Elsa (ore 17) con gli interventi di Massimo Raffaelli, critico letterario, Piero Meucci, giornalista e Pino Di Blasio, giornalista. Coordina Roberto Barzanti. Si tratta del terzo incontro organizzato dall’Associazione Amici di Romano Bilenchi in occasione del trentennale della morte.
Foto: Romano Bilenchi