Firenze – Lo so che rischio l’accusa di essere un passatista nostalgico e non escludo neppure di meritarmela questa accusa, ma vado avanti ugualmente col mio ragionamento che scaturisce da questa convinzione: oggi siamo tutti più o meno connessi elettronicamente, ma assai più sconnessi fisicamente e quindi umanamente rispetto a ieri. La rivoluzione informatica – per non citare che uno, probabilmente il più evidente, fattore di novità – ha mutato più di quanto comunemente si creda la natura delle persone, il modo di agire, di comportarsi e di relazionarsi tra loro. Che tutto questo sia un bene o un male, neppure io che pure non faccio mistero di rimpiangere alcune modalità di comportamenti ed abitudini del passato mi sento in grado di azzardare una risposta. Mi limito ad affrontare i problemi uno alla volta, cercando di esaminarli nel modo più completo ed esauriente possibile.
Uno dei tratti caratteristici dell’oggi è la fretta, la celerità, l’immediatezza, fattori che come conseguenza estrema possono produrre il convincimento di un annullamento del tempo, la sensazione di vivere in un mondo senza ieri e senza domani. A persuadermi sempre più della validità di questa tesi ha contribuito la lettura di uno scritto del filosofo d’oltralpe Régis Debray dedicato alla figura di Che Guevara (di cui ieri ricorreva il cinquantenario dell’uccisione), ma che va oltre, dilatandosi fino a comprendere alcune tra le principali problematiche del nostro tempo, comprese quelle cui molto più modestamente facevo riferimento io stesso.
Osservando che un tratto caratteristico del Che era lo “spingere indietro gli orizzonti della sua curiosità intellettuale”, fatto che gli permetteva di “vedere più lontano di noi che avevamo il naso puntato sugli eventi contingenti invece di prendere in considerazione le prospettive lunghe e pazienti del lungo termine”, Debray sottolinea il “paradosso del rovesciamento delle mentalità dominanti, dove ciò che si vede ormai prevale su ciò che si legge.” Tuttavia questo paradosso, sempre secondo il filosofo transalpino, ne produce anche un altro ancora riguardo a Guevara e cioè che egli si “ritrovi sacralizzato in una gamma infinita di immagini, dalle magliette ai poster…” “La tipografia lo ha aiutato a vivere e pensare (così com’è servita di base al Socialismo, con gli operai del libro che furono il cuore pulsante di questa tradizione popolare), ma è la fotografia che lo fa sopravvivere nelle gioventù del mondo.”
La “transizione, oggi completata, dalla grafosfera alla videosfera”, ha dunque anche effetti positivi. Ma attenti, avverte Debray, perché se in passato “la parola leggenda designava, nel suo senso esatto, ciò che deve essere letto (legenda in latino), oggi ingloba tutto ciò che colpisce la retina e sa farsi vedere.”
Dicevo prima che per cercare di semplificare un discorso molto difficile è meglio affrontare i problemi uno alla volta. Un tema che suggerisce immediatamente una diversificazione netta rispetto al passato riguarda le modalità della politica, cioè il modo in cui si fa politica oggi, in tempi di “videosfera”. Anni fa, neppure molti, la politica era attivamente praticata in Italia, a differenza che in altri Paesi, ad esempio gli Stati Uniti, da un gran numero di persone che a vario titolo quasi quotidianamente frequentavano le sedi dei partiti per svolgervi una qualche attività o semplicemente per partecipare alle riunioni. Il fenomeno riguardava in misura minore o maggiore tutti quanti i partiti, ma era particolarmente sviluppato nel Partito comunista.
Nel Centro Nord non c’era praticamente un paese che non avesse una sezione o una cellula del Pci, con tanto di segretario e di comitato direttivo formati ovviamente da volontari che dedicavano parte del loro tempo libero all’impegno politico. La stessa cosa, sebbene forse in misura minore, avveniva anche negli altri partiti, con indubbi riflessi positivi sulla coesione interna. Le riunioni erano frequenti e in ognuna si passava in rassegna la situazione politica e le iniziative di maggiore rilievo che di volta in volta, a livello nazionale o locale, il partito assumeva. Nel Pci il collegamento tra il “centro” e la “base” era spesso reso più agevole dalla figura del funzionario di federazione, un’attivista a tempo pieno, remunerato con una somma commisurata al salario di un operaio, nelle cui fila il partito attingeva per gli avvicendamenti negli incarichi nazionali e nelle rappresentanze parlamentari.
Sarebbe esagerato affermare che le scelte politiche dei partiti scaturivano da questo continuo confronto tra base e vertice, sicuramente però le direzioni nazionali ne facevano tesoro per avere sempre la percezione di quali fossero gli umori dei militanti sulle questioni di maggiore importanza nazionale che di volta in volta si apprestavano ad affrontare.
Come ognuno vede, la situazione odierna è completamente diversa. Partiti che c’erano un tempo, ora non ci sono più e quelli che dovrebbero in qualche modo sostituirli sono attraversati da serie difficoltà. Anche quelli di nuovo conio, nati cioè senza riferimenti più o meno espliciti e diretti a forze politiche preesistenti non se la passano molto meglio, se si escludono momentanee effervescenze in concomitanza con eventi che urtano in modo particolare la sensibilità dell’opinione pubblica.
Se una persona, tentando di spiegare il mutamento, adducesse come elemento prioritario il fatto che negli ultimi due o tre decenni è cambiato il mondo, direbbe la verità. Ma è una verità all’ingrosso, apodittica e perciò insufficiente a convincere, una verità che necessita di ragionamenti approfonditi e di spiegazioni particolareggiate. L’unica cosa che io mi sentirei di dire confrontando l’ieri con l’oggi è che dal dopoguerra e per qualche decennio è restato presente nella mente degli italiani, per esperienza diretta o tramandata o come bagaglio politico-culturale, la consapevolezza di essere usciti da un’esperienza terribile – il nazifascismo e la guerra – e che fosse perciò necessario fare tutto il possibile per evitare torsioni violente e ritorni all’indietro. Non a caso la “tipografia” evocata da Régis Debray a proposito del Che e del Socialismo, ha avuto, in quelli stessi anni, una funzione molto importante: non c’era partito, ancor piccolo, che non avesse il proprio giornale, oltre ad una serie di altre pubblicazioni. Senza contare il supporto costante proveniente dalla pubblicistica cosiddetta apartitica e indipendente. Ancora una volta il Pci si distingue nell’abbinare politica e cultura. In questo caso Togliatti agisce come il Che (e Gramsci): non ci può essere politica senza cultura.
Del tutto diversa l’aria che spira oggi in Italia e nel mondo: ormai è sempre più difficile operare delle distinzioni. Tutto il mondo è paese, dice un vecchio proverbio popolare. Chi lo usò per primo non avrebbe certo immaginato che sarebbe arrivato un tempo in cui tutto ciò sarebbe avvenuto davvero. Oggi non ci sono più giornali di partito e se ci sono hanno vita assai stentata. Le opinioni politiche maturano, come le ipotesi di soluzione dei problemi delle collettività, mediante approcci occasionali e superficiali. I partiti di un tempo erano organismi saldamente strutturati, supportati e corroborati da ideali e ideologie e con una linea di continuità (spesso eccessiva e questo era forse il loro principale difetto) con il passato.
Oggi ci sono movimenti costruiti quasi senza veri e propri rapporti interpersonali e la cui unica cifra teorica sovente è il turpiloquio. E la politica è considerata alla stregua di uno spettacolo dove ciascuno recita per la promozione di se stesso ed è vissuta come pretesto per intrattenimenti televisivi. Di ideali o anche semplicemente di progetti neanche l’ombra.