La grandezza del samurai che ha scelto di pulire i gabinetti di Tokyo

In Perfect days Wim Wenders ha ritrovato la sua felicità espressiva

Da quando Wim Wenders ha iniziato a fare cinema da oltre 50 anni – come uno degli esponenti di punta nel Jungher Deutscher Film con Fassbinder, Kluge , Schlondorff , Von Trotta , Syberberg , Reitz – la dimensione del tempo e quella del viaggio e  lo sperimentare  tutte  le potenzialità della macchina da presa di cogliere il reale, sono state al centro della sua opera artistica. Dalla freschezza delle sue prime opere , con  Alice nella città,  altre poi lo hanno consacrato internazionalmente come Paris Texas , Il Cielo sopra Berlino, L’Amico Americano, Fino alla fine del mondo e Nel corso del tempo.  

Nell’ultimo trentennio questa ricerca si è fatta troppo intellettualistica, Wenders si è come incartato su sé stesso, e in qualche modo ha perso felicità espressiva e molti suoi film sono parsi macchinosi, pure  prove tecniche di trasmissione. Ora con  Perfect Days sembra aver raggiunto un momento in cui questa felicità si è ricomposta, e la sua ricerca placata ha portato a risultato insperati, con esiti imprevisti , ma molto affascinanti. E dire che il film era nato solo come progetto documentaristico commissionatogli  dalla governance nipponica sulla nuova architettura di Tokio dei bagni pubblici  in occasione delle Olimpiadi e che ha portato a risultati innovativi e creativi.  E  del documentario il film assume alcuni tratti , sia nelle inquadrature panoramiche , che nel rallentamento delle azioni, in apparenza  ripetitive del protagonista, che è colto nella sua routine quotidiana,  e soprattutto non pronuncia parole, eccetto che in pochissime circostanze, ma in modo conciso, mai periodi lunghi, solo risposte che paiono  brevi  lievi aforismi.   

Wenders ci consegna in questo film un personaggio singolare e straordinariamente sfaccettato. Si chiama Hirayama  (come il protagonista   dell’ultimo film di Ozu , Il gusto del sakè, 1962 ) e può definirsi  un autentico uomo zen , ma come laico cane sciolto da ogni credo e assieme attraversato dal meglio della cultura americana  anni 70 e 80. Wenders non è fisso per quasi tutto il film a raccoglierne le espressioni, ma i gesti e il contesto. In realtà H. diviene il vero operatore e regista del film. Egli parla, diventa eloquente solo in tutte le strumentazioni analogiche con cui agisce e interagisce. Dalle foto che sviluppa e seleziona , fin dalle musicassette con cui comincia  la sua giornata attraversando Tokio per recarsi al lavoro alle note di  The House of the Rising Sun  che diviene  come un suo inno alla vita.  E soprattutto ci dice qual è il suo immaginario e simbolico che qui si fonde con quello di Wenders , come  i cult del rock anni 70 e 80 (Lou Reed, Patty Smith , i Velvet,  William Faulkner , e la grande letteratura americana.  H. guida  al suono di  Sometimes I feel so happy/ Sometimes I feel so sad.

Hiriyama  profondamente zen  lo è però  nel concreto del quotidiano . È riuscito evidentemente a distaccarsi  da tutto il modo di produzione  a dominante digitale e informatizzata, non appartiene  più alla  megamacchina  globalizzante  ma non per questo ha abiurato alla sua socialità, anzi, ha coltivato  ancora di più empatia e compassione soprattutto verso i più deboli ed emarginati. Hirayama  ha scelto, per la sua seconda vita  di cinquantenne, un lavoro considerato il più basso e puzzolente della scala sociale : pulisce i cessi  di Tokio , e indossa la sua tuta azzurra con la scritta The Tokio Toilet.  Ma con essa e con tutta l’attrezzatura connessa , è come se sfolgorasse  dell’armatura  d’un samurai  al massimo livello.

Per elmo, un cappellino di baseball , per armi un secchiello e una spazzola, per destriero  un furgoncino blu Toyota economicissimo. Senza arroganza, né enfasi, fa ogni cosa ad opera d’arte. Si è persino costruito uno specchietto per  illuminare anche gli angoli inaccessibili per  le superfici che pulisce. E ogni cosa che utilizza appartiene al mondo analogico : dagli attrezzi che si costruisce o adatta, alle musicassette,  e nel suo lavoro non c’è nulla di robotico . Hirayama ha guanti , mascherina, prodotti sgrassanti, disinfettanti, deodoranti,  ti fa entrare con grazia ipnotica  nei suoi gesti che assumono con lui una dimensione sacrale.

 È  il sacerdote  umile  del suo rito , nel suo lustrare gentile par di  sentire  lo stridio  delle spazzola e dello strofinaccio  e sentori  di  fragranza e brillio. È  orgoglioso del suo compito e  ha sempre un sorriso lieve e mai affettato. Tra l’ironia e la cura gentile del suo prossimo. Sorride al bimbo che si è perso e lo riporta  dalla mamma, sorride alla figura ieratica e anziana in yukata  turchese che si appresta a sue ritualità  all’aria aperta , come segue con cura partecipe e rispetto le improbabili evoluzioni di un senza tetto perso in un suo mondo di gesti ossessivi e compulsivi.  Sorride ai clienti sprovveduti cui mostra  l’uso delle toilette.  Ma  non è un budda imperturbabile e onnipotente.  Né un santuomo , solo un uomo dal vissuto misterioso e travagliato.  E  che aveva un ruolo rilevante nella scala sociale.

Wenders non ce lo disvela mai realmente . Ci mostra una sua prima increspatura , o smarginatura per dirla  a la Ferrante, nelle due volte in cui si trova  nel parco a incrociare lo sguardo di una ragazza seduta su una panchina poco lontana , ma laterale alla sua. E’ una scena enigmatica . Lui le sorride lievemente e fa un cenno di saluto del capo. Non cerca affatto di flirtare, magari scambierebbe  spontaneamente due parole. Di solidarietà , di comunanza. Ma la ragazza lo guarda come una gazzella spaurita  e apprensiva  e con evidenti problemi emotivi. E poi si richina confusa sul libro che legge. Dopo qualche giorno sulla stessa panchina  lui  rivede nello stesso punto la ragazza e sempre  timidamente riaccenna il saluto. Nel campo e controcampo breve ed intenso che segue Wenders con un semplice  tocco di classe purissima  ci infila nel disagio che chiunque almeno una volta ha provato in situazioni del genere. La ragazza trasale, a questo punto sembra come concentrata , gli occhi al cielo a passare affannata in rassegna  le varie gamme di sensazioni e pulsioni  cui non sa dare risposta,  poi  sempre immobile lo rifissa disperata, smarrita, interrogativa. Muta.  A questo punto è Hirayama  che distoglie lo sguardo e mira in aria imbarazzato,  avverte che il suo cenno amicale ha smosso aspettative e agitazioni molto più complesse  cui non è in grado di rispondere e gestire. 

Nel parco Hirayama  ci va spesso  a  cogliere con la sua vecchia fotocamera analogica , il komorebi , quei momenti particolari di massimo riflesso del sole filtrato tra le cime degli alberi, che solo per un attimo si imprime nella pellicola. E infatti il nostro  ne seleziona a mano solo  alcune che poi ripone in un enorme archivio cartaceo.

E  alla nipote adolescente venuta a trovarlo , e  che riflette come lui e sua madre  non hanno niente in comune come vita e pensiero,  affida alcune delle pochissime frasi che pronuncia per tutto il film : “vedi viviamo tutti in mondi paralleli, ma  quasi mai si ricongiungono e comunicano tra loro”. E  quando la nipote insiste per sapere cos’intende per “un’altra volta” alla sua richiesta inevasa di arrivare al mare, Hirayama  replica fermo “Un’ altra volta è un’altra volta , mentre adesso è adesso, e il senso e l’accento è  adesso , qui e ora : cioè vivi le esperienze al presente , ma non in modo effimero, ma in un presente pieno e intenso di per sé , sedimentato. Che è l’opposto di un disimpegno dalla vita.

Sempre con  delicatezza Wenders scova  il komorebi onirico anche in  Hirayama. in brevi lampi in bianco e nero  che ogni tanto contrappuntano  il film. Sono fotogrammi sgranati, sfocati, sovrapposti , irrisolti . A tutto schermo  una mano grande di adulto che stringe rudemente  quella di un bambino, o un profilo di donna proteso in un bacio (forse), o  ancora uno stormire di fronde come ‘Le palme selvagge’ del Faulkner che H. ha appena riposto dalla lettura  prima del sonno. Le inquietudini del nostro, un passato che riemerge sommesso, l’incomunicabilità  nell’incontro con la sorella  che di sera è venuta e a riprendersi la figliola che  era andata a trovare, per la sua prima fuga da casa,  proprio questo suo zio un po’ strano, così diverso da quella agiata vita borghese della mamma in cui era immersa. Anche qui il dialogo è brevissimo , ma comunica il disagio di spazi siderali tra i due , un rapporto  troncato col padre  che si accenna essere agli sgoccioli della vita,  il rimorso indotto per non rivederlo, poi lo scarno saluto della sorella dal finestrino dell’auto lussuosa da cui è venuta. E, appena  partito  il mezzo,  per la prima  volta  Hirayama  trasforma il suo sorriso in un pianto silenzioso, ma squassante.

Nel percorso  del suo straordinario personaggio Wenders ne coglie le penultime scene di fronte alla baia di Tokio . Mentre osserva rapito  i riflessi del sole sull’acqua al tramonto, mixati con  gli scintillii dorati e ipnotici  delle luci  della città , è avvicinato da un uomo che è l’ex marito della ristoratrice di cui da anni è abituale cliente. Nasce una confidenza tra i due uomini, dove l’altro confessa a H. che è al termine della vita e che voleva rivedere la sua ex per l’ultima volta, H. gli offre una birra e propone all’altro un gioco surreale e poeticamente simbolico: giocare a rincorrere  vicendevolmente le proprie ombre, per vedere se, sovrapposte, diventano un’ombra  ancora  più scura : qualche volta pare sì, altre forse no.

Hirayama  riprende al mattino il suo viaggio nella vita interiore che si è scelto, e  mentre percorre  sul furgoncino la città mette Feeling Good di Nina Simone . La musica trabocca irresistibile  nell’intensità  straziante e morbida  della voce d’una artista  totale  che trasmette, come solo lei è capace, senso nuovo , verità  e colore stupefacente  a  parole  e immagini altrimenti banalizzate e sgonfiate.  Nina Simone  può  così permettersi  di cantare  e farci tutti  volare  : “gli uccelli volano alto…è una nuova alba , mi sento come un pesce nel mare, un fiume che scorre libero, come i fiori sugli alberi, una libellula fuori al sole, sai cosa intendo, Delle farfalle che si divertono, dormire in pace quando il giorno è terminato”.

E così , da lei inondato si commuove Hirayama, interpretato dal  grande  attore Koji Yakusho . Questa unica volta è ripreso da Wenders  in totale solitudine e a pieno schermo:  al volante del  suo Toyota Van trascolora dal riso al pianto che frena in brevi morsi del labbro così  messo a nudo,  solo con sé stesso , finalmente può trasmetterci quanto impastati  sono in lui  gioia  e dolore  in un uomo zen atipico che legge il tempestoso Faulkner. E  quali sentieri impervi disseminano  il suo scegliere di sentirsi bene , perché si sceglie sempre , si costruisce  solo poco a poco, è un percorso  in  continuo divenire e mai scontato, momento per momento.

Una lotta feroce e silenziosa contro il thanatos  che alligna anche nei sogni pronto a inghiottirti.  Un atto di generosità nei confronti della vita che bisogna reinventarsi giorno dopo giorno e innaffiare ogni mattina con l’amore  che lui mette  nel dissetare  le sue piccole piante. Germogli ancora incerti  dissotterrati  nel bosco prima  e  con estrema cura  trapiantati  nella sua piccola serra in terrazza.  Forse nella sua trentennale ricerca  Wenders alla fine ha scoperto che le possibilità del cinema non possono mai cogliere la realtà nella sua  molteplicità, ma sì  lo stupore  rinnovato  d’ interstizi , frammenti , baluginii della vita  tra i rami , e le onde, e lo smarrimento  degli sguardi. Come le immagini emozionanti e libere che ci ha regalato in questi suoi piccoli nitidi  eppur misteriosi , perfect days .

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