Riprendendo la nostra storia e, ribadita la necessità di precisare in senso sociale la definizione – anche alimentare – del “pellegrino”, diremo che la sacca di un pellegrino, che a piedi (come il pauper della nostra storia) o a cavallo (come l’abate che lo ospita) percorre le strade verso Roma o verso altri luoghi sacri della cristianità, in ogni caso dovrà contenere cibi facilmente e lungamente conservabili, giorni e giorni, settimane, magari mesi. Questo è il dato essenziale da tenere presente ed è per questo che il pane è elemento primario della dotazione alimentare del pellegrino in viaggio: un pane asciutto, talvolta molto duro, da utilizzare dopo averlo bagnato nell’acqua o nel vino. Ma anche quando parliamo di “pane” ci riferiamo, in realtà, a prodotti potenzialmente assai diversi tra loro. Il pane del contadino dobbiamo figurarcelo come un pane scuro, fatto di cereali poveri come la segale, il miglio, la spelta, prodotti fondamentali della dieta rurale per tutto il Medioevo e fino all’Età moderna. Solo nella sacca dei pellegrini più agiati potremo trovare pane bianco di frumento.
Altri cibi a lunga conservazione, da affiancare al pane, saranno stati i salumi, i formaggi, le carni secche. Da bere, un po’ d’acqua ma soprattutto vino, la bevanda universale del Medioevo, di gran lunga preferita all’acqua (o comunque mescolata all’acqua) anche per motivi di igiene e di salubrità: l’acqua non sempre è potabile, e quando lo è non lo rimane a lungo.
Una delle usanze particolari nel mangiare lungo il pellegrinaggio era l’uso delle gocce d’olio per condire le cibarie. Questa pratica, mediata dalle Sacre Scritture, serviva per reprimere la vanagloria personale e nello stesso tempo per dare gusto a ciò che si mangiava, ecco perché i viaggiatori portavano sempre con loro una buona scorta di questo prezioso ma umile condimento. Naturalmente, non dobbiamo immaginare il nostro pellegrino solo come una persona che mangia le vivande trasportate a spalla. Di tanto in tanto, o magari tutti i giorni, egli può fermarsi in un luogo di ristoro: la taverna e l’osteria non sono invenzioni della nostra epoca, anche il pellegrino medievale li incontrava di frequente sulla sua strada.
C’è addirittura una guida, famosa, per il pellegrino in viaggio verso Santiago di Compostela: risale al XII secolo e contiene dettagliate informazioni non solo sui luoghi di culto e di preghiera in cui fare sosta durante il percorso, ma anche sui luoghi in cui mangiare e dormire. Col passare dei secoli locande e taverne si moltiplicano, nelle campagne e nelle città. In alcuni centri urbani, i gestori di luoghi di ristoro si organizzano talvolta in corporazione e si dotano di appositi statuti, in cui vengono fissate le norme con cui svolgere l’attività, le modalità e i prezzi dell’alloggio, la tipologia del cibo da offrire ai viandanti. Anche le vivande offerte dai tavernieri – come i cibi che i pellegrini portavano con sé – erano di preferenza prodotti a lunga conservazione (pane, salumi, carne secca, formaggi…) oppure piatti preparati, da riscaldare all’istante, o anche da servire freddi, per un servizio rapido ed efficiente. Minestroni di verdure e legumi, stufati e intingoli pronti al consumo sono i protagonisti primari di questa gastronomia semplice, dall’impronta decisamente popolare. Un esempio di questo tipo di vivande è quella di cui troviamo la ricetta un libro di cucina italiano del Trecento, il cosiddetto “Anonimo toscano” pubblicato nel secolo scorso dall’erudito bolognese Francesco Zambrini. Il titolo della ricetta è “De la gelatina di pesci senza oglio”:. Si tratta evidentemente dello “scapece”, una vivanda simile al carpione che si prepara ancora oggi, a base appunto di pesci messi a conservare in vino e aceto dopo essere stati fritti nell’olio…
Invece è interessante che un libro di cucina scritto in ambiente colto, e rivolto a un pubblico aristocratico, contempli al proprio interno una ricetta “da tavernaio”, cioè adatta ad essere preparata in un’osteria in quanto piatto sempre pronto, a disposizione di viandanti che rapidamente vogliono mettere qualcosa sotto i denti. Una ricetta “per pellegrini”, esplicitamente definita in questo modo, si trova in un altro ricettario medievale italiano, quello scritto nel XV secolo da Giovanni Bockenheym, un cuoco di origine tedesca – non stupiamoci di questo, poiché la cucina tedesca era di gran moda nel Medioevo, un po’ come la francese o l’italiana oggi – che lavorava alla corte di papa Martino V. Dunque nel suo ricettario, intitolato Registrum coquine e scritto fra il 1431 e il 1435, Bockenheym include una minestra di fave per la quale dà le seguenti indicazioni: “Prendi le fave, lavale bene in acqua calda e lasciale così tutta una notte. Poi falle bollire in acqua fresca, tritale bene e aggiungi vino bianco. Condisci con cipolla, olio di oliva o burro, e un po’ di zafferano”. Questa vivanda – aggiunge in chiusura – “sarà buona per i chierici vaganti e per i pellegrini”. Attribuzione curiosa, come altre che il nostro autore affibbia ad ogni ricetta del suo registro; non è facile interpretarne il significato ma è chiaro che queste vivande di legumi e verdure rappresentavano, come abbiamo già detto, una presenza importante nella disponibilità di taverne e osterie in cui cercavano ristoro i viandanti.
Vorrei concludere con un’ultima citazione che riguarda ancora l’ospitalità monastica alla gente di passaggio. La comunità eremitica di Camaldoli, anch’essa attrezzata per accogliere e nutrire ospiti e pellegrini, regolava la propria vita interna secondo norme messe per iscritto dagli abati nel corso del XII secolo. In questo Liber eremiticae Regulae leggiamo, a proposito del vino, che gli eremiti in teoria non dovrebbero berne, ma le abitudini e la debolezza del corpo non consentono di privarsene del tutto; dunque lo si consente, con alcuni avvertimenti: che i fratelli bevano di rado, con sobrietà e – giacché bevono poco – solamente vino schietto e di ottima qualità. Ma non sempre il vino risponde a quest’ultimo requisito: talvolta può essere “guasto, inacidito, ammuffito”. Che si farà in questi casi? Servirlo ad altri (aliis poterit ministrari) e, per gli eremiti, trovarne dell’altro più conveniente. Consentitemi, con una certa forzatura e con un po’ di malizia, di pensare che quegli “altri” siano, in primo luogo, i poveri pellegrini – o, se volete, i pellegrini poveri.
Giovanni Boccaccio, nella decima novella della sesta giornata del Decamerone, per descrivere la scarsa pulizia di Nuta, la ragazza di cui si è innamorato Puccio Porco, afferma che il cappuccio della sua veste era così unto che “avrebbe condito il calderon d’Altopascio”.Un secolo e mezzo più tardi Niccolò Machiavelli, ne “La Clizia”, dice: “Pirro, dall’altra parte, non è se non un cacapensieri, che morrebbe di fame in Altopascio.”Appena due esempi, questi, per dimostrare quanto fosse conosciuta, in ogni epoca, la cucina di Altopascio.Ma non solo la cucina. Quella era solo una componente del grande complesso ospitaliero famoso in tutto il mondo cristiano fino dall’XI secolo.
Eretto sul percorso della Via Francigena, costituiva uno dei più importanti luoghi di sosta e di ristoro (della trentina presenti in territorio toscano) per milioni di viandanti, pellegrini, mercanti, soldati che nel corso dei secoli vi si sono avvicendati. Per quei viaggiatori che si perdevano nelle boscaglie delle Cerbaie o nelle infide paludi di Bientina, c’era la Smarrita, una campana che dall’alto del campanile della pieve romanica, faceva sentire i suoi rintocchi ad indicare la giusta direzione. E c’erano anche i famosi Cavalieri del Tau, una confraternita che si occupava non solo di mandare avanti il grande complesso dalle multiformi funzioni – di albergo, di ospedale, di luogo di preghiera, di punto di sosta – ma anche quello di mantenere in buon ordine il tratto di Via Francigena di loro pertinenza e di tenere lontane le bande di lestofanti che non mancavano mai, nel Medioevo, lungo le strade di grande comunicazione.E nella parte centrale, si potrebbe dire nel cuore, dell’immenso e articolato edificio, stavano la cucina e il refettorio dove, secondo la tradizione, non si rifiutava a nessuno una scodella di minestra calda o una fetta di pane. Chi poteva permettersele pagava; i poveri si sdebitavano con qualche preghiera.
I pellegrini spesso si procurano il cibo da sé catturando animali o raccogliendo frutte e erbe o pescando. Attorno ad un falo’ si creava un vero scambio di conoscenze sul modo di preparare i prodotti: l’acqua cotta da cibo dei butteri diventa cibo dei romei: le erbe colte ora erano condite con lardo ora col baccalà secondo i luoghi di provenienza. I pellegrini tornati nei loro luoghi d’origine portavano e rielaboravano i cibi tradizionali assaggiati durante il cammino e diffondevano pietanze simili preparate con infinite varianti. Era iniziata la globalizzazione.