E’ esistito, in tempi ormai semimitici, un lungo periodo in cui il nostro tempo era scandito in blocchi grossolani e regolari, perfettamente comprensibili, rassicuranti: scuola, vacanze, Natale, stop. In seguito abbiamo appreso la suddivisione in giorni della settimana: Domenica, Altri Giorni. Sempre più raffinata, man mano che crescevamo: giorni di lavoro, weekend, tempo perso: ancora ci orientavamo, certo, sempre più con fastidio, ma si poteva stare. E’ l’ultima release di questo giochino che ci rende il tutto più difficile: Giornate di Qualcosa Vs. Altri Giorni In Cui Non Siamo Sicuri che Non Sia la Giornata di Qualcosa. E via, a consultare Google per vedere se per caso non ci stiamo scordando di onorare una qualche categoria: donne, macellai, criceti, tegole caduche, fiori recisi, trapani manuali, chi lo sa. Il pensiero di essere in difetto nei confronti del resto del mondo in queste Giornate in cui tutti sanno che c’è da festeggiare qualcosa ci destabilizza e cerchiamo Segni in grado di metterci sull’avviso: i vecchietti ostentano una qualche coccarda? Su Facebook i profili sono impreziositi da gadget variopinti? Nessuno sta pronunciando la parola “Semaforo” già da qualche tempo?
Oddio, ma da quanto tempo?! Chi decide quando è una Giornata Mondiale, o Internazionale, e perché? Alcune sono ricorrenze nazionali o di organismi politici sovranazionali, fatte per celebrare identità collettive; per altre, è l’Unesco che ficca il naso e ci infila qualche cosetta sua, tutto sommato di importanza condivisibile: Pace, Natura, Libertà di Stampa, cose così. Poi ci sono quelle legate alla tradizione, che poco a poco sono diventate ricorrenze inevitabili: per San Giuseppe, un tempo ricorrenza importantissima perché, in sostanza, celebrava sotto mentite spoglie l’Equinozio primaverile (come la Pasqua, del resto), oggi si celebra, distrattamente, il Papà, senza fiori ma con opere di bene: ossia, nelle scuole si levano canti tristissimi di soldati sperduti al fronte, niente cioccolatini, niente nastri, solo straordinari in fabbrica. Su altre, probabilmente spinte da qualche potente ONG o lobby, preferiremmo non soffermarci ma vale la pena ricordarne alcune per dare un’idea di quali vette si possano toccare: la Giornata Mondiale dell’Omeopatia (che tutti sono concordi nell’affermare sia una bufala) e quella della Risata, quella dei Naturisti, la Giornata Mondiale del Vento (ma perché?), quella degli UFO (che sono per definizione extra mondiali), quella per il boicottaggio della Coca Cola (ledendo un diritto di scelta in favore di un altro, non c’è male), quella contro la Rabbia (in guardia cani, pipistrelli, tassi e volpi, o è solo vietato incazzarsi, e se sì con quali sanzioni?), quella per la Pulizia delle Mani (gli altri giorni, bidet libero per tutti), quella della Nutella (indovina chi l’ha sponsorizzata?); per arrivare alle Giornate della Pennichella, del Bacon, del Ninja e del Calcio nel Culo.
Tutto vero, non ci stiamo inventando proprio niente. Una delle più belle di sempre, però, troviamo sia la Giornata Mondiale della Felicità: un capolavoro intramontabile, con la sua classifica, in perpetuo divenire, di quali siamo i popoli più acriticamente tronfi del proprio stato di cose o viceversa i più dediti al piagnisteo. Anche quest’anno, la classifica ci ha riservato, se non l’onta del fanalino di coda, almeno quella del 48° posto su 155 Paesi considerati.
Vale a dire, piazzamento ad un terzo di una classifica in cui i due terzi inferiori vedono una sovrabbondanza di Paesi in via di sviluppo (meraviglioso eufemismo positiveggiante per dire senza troppa cattiveria: Paesi africani morti di fame da sempre) e di Paesi balcanici o balcanizzati per i quali ci sentiamo di dire che, sì, ci aspettavamo fossero meno felici di noi. Cosa renda tanto più felici degli italiani, invece, Colombia, Nicaragua, Arabia Saudita, Cile, Argentina, Brasile, ad esempio, non è dato saperlo. Oppure, sì: tra le variabili sulle quali chi ha stilato le classifiche (sponsorizzate da Illy: forse che il caffè fa la felicità? E allora perché non siamo vicini alla vetta?) notiamo la libertà nelle scelte di vita, la salute, l’onestà, il reddito, la percezione della corruzione e del buon governo, la generosità delle donazioni, la cura della comunità e altre simili cosette. Ora; come già detto in altre occasioni non è che non ci fidiamo particolarmente di queste classifiche, ma… beh, no, non ci fidiamo per niente. Non che sui fattori testé elencati abbiamo qualche dubbio circa la percezione del cittadino medio italiano: per carità, sembrano sacrosanti. E’ che ci chiediamo sempre come mai siano stati fissati questi ben determinati parametri e a chi sono state rivolte le domande in merito.
Ad esempio: prendiamo la capolista indiscussa, la Norvegia. Se nella lista dei parametri ci metti, reddito pro capite, fai presto a salire in testa: stipendi altissimi, che fanno media anche per i tanti che non trovano impiego; fermo restando che lì l’impiego lo trovi, volente o nolente. Se sei un ingegnere civile e ti trovano da spazzare per terra tu vai e zitto; e lo stipendio non è nemmeno malaccio. Oddio, poi una pizza costa 20 Euro, ma che sarà mai. A un certo punto, diventa un fattore culturale: se abiti in quelle lande desolate puoi decidere se sbronzarti dalle 8 del mattino o aspettare le 17, metterti il doposci verde oppure quello rosso, però se hai una concezione della libertà delle scelte della vita che si sposa con le tue effettive e reali possibilità sei a cavallo, giusto?
L’importante è quindi creare il giusto clima per la sopravvalutazione del benessere relativo, e tutto andrà a posto. Ovvero: non mettiamo nell’elenco la buona tavola, la musica, il cinema, il clima, tossicodipendenze, autolesionismi, suicidi, malattie mentali, depressioni, innovazione tecnologica e imprenditoriale, turismo, e vedrete che pure paesi come l’Islanda possono sentirsi in vetta al mondo: posti in cui nella strada da casa all’asilo sono posti dei cartelli con su scritti “Attenti all’orso bianco” e se uno non torna a casa alla sera non telefoni al bar, ma esci con la carabina e la luce sul casco. In compenso, pare che gli italiani riescano a sentirsi molto più infelici degli altri pur vantando clima, arte, industria, reddito, cucina, intrattenimenti, strutture sanitarie e longevità sempre al top, anche quando paragonati a Nazioni che hanno un PIL molto maggiore e risorse in proporzione.
Polemici? No. Vabbè, giusto un pochettino. Campanilismo q.b., insomma, sostenuto dal fatto che gli altri Paesi vorrebbero essere noi, mentre al contrario, nonostante tanto chiagni e fotti (in questo, decisamente, siamo campioni indiscussi) a noi di essere loro non ci passa neanche per la testa. Sogniamo, sì, di mollare tutto e scappare a far fortuna da qualche altra parte, ma per poi tornare a inforchettare le lasagne di mammà portando con noi i parafernalia del successo che abbiamo fatto in terra straniera, come gli immigrati che tornavano da Milano in Calabria con l’Alfasud; vecchie logiche da poveri, tutto sommato, niente di nuovo sotto il sole. Che perlomeno possiamo sempre vantarci di avere. C’è, ovviamente, poco da stare allegri.
Perché se la Felicità così come oggi concepita è evidentemente un imperativo (stai felice!) e un prodotto del marketing dell’annullamento critico, è anche altrettanto evidente che noi, qui, in questa Italietta, siamo sottoposti ad un battage pubblicitario di segno opposto rispetto all’edonismo di massa propugnato dagli altri Paesi: a noi viene insegnato a stare preoccupati, a sentire l’odore della paura e del fallimento, a sentirci inferiori agli altri. Che questo sia strumentale a rifornire le forze lavoro lacunose oltre frontiera o a formare masse desiderose di votare questo o quest’altro Uomo Forte pronto per risolvere i nostri problemi di ansie infantili, non è dato saperlo: in un caso o nell’altro, non è considerazione che possa renderci felici. Che infine abbiano ragione i Norvegesi?