Scosse: il ritorno dell’uomo ai tempi di Facebook

Gli avevano chiesto di fare una ricerca, lui ha preferito fare il volontario. Il sociologo Lorenzo Notari racconta uno spaccato di umanità straordinaria sui luoghi del terremoto

Lorenzo Notari*

In questi giorni di emergenza terremoto mi è stato suggerito di fare un intervento di ricerca sociologica sugli effetti che episodi traumatici di questo tipo hanno sui comportamenti della gente della bassa modenese e reggiana, colpita da questo tragico evento. Sarebbe un bell’esercizio di stile per me, una buona promozione per la mia agenzia e ottimo materiale da pubblicazione per le testate e gli organi interessati. Non penso che lo farò. Sicuramente non ora, mi sembrerebbe poco rispettoso. Adesso le cose importanti sono altre. Chi ha energia a disposizione dovrebbe usarla meno per chiacchiere autopromozionali e più per fare qualcosa di concreto.  Forse sì, più avanti me ne occuperò, ma solo quando la cicatrice morale e materiale di quella gente fortissima, laboriosa e coraggiosa, si sarà rimarginata e quando sarò sicuro di non riaprire ferite profonde, di non disturbare.

Resta il fatto che in questi giorni sono comunque andato nelle zone dell’epicentro, non come sociologo ma per vedere se e come potevo rendermi utile. Tante le scene viste, di una intensità difficile da descrivere: dalla stalla mezza crollata nelle campagne di Mirandola, con il contadino che stava in giardino con tutte le sue vacche rosse legate una ad una agli alberi da frutta e lui che le puliva e accarezzava come a fargli coraggio. Grandissima dignità. Ai due ragazzi di una zona molto isolata, seduti sul ponte della loro casa perché la casa non c’era più, che gli chiedi se serve qualcosa e ti chiedono solo di sapere com’è la situazione intorno perché loro non hanno più l’auto (sepolta) e non riescono a spostarsi ma non gli serve niente, a breve arriveranno alcuni amici a portarli via. Grandissima forza d’animo. Alla chiesa semidistrutta di San Giacomo Roncole dal cui campanile tranciato lunedì sera dopo la giornata più pesante, alle 21 usciva la registrazione della campane con musica da chiesa, come ogni sera alle 21 anche prima del terremoto. Commovente.

Ma l’aspetto che in assoluto mi ha colpito di più, è che ho visto gente che si abbracciava. Riuscite a crederci? Vicini di casa che per anni non si sono rivolti la parola o che lo hanno fatto solo per litigare sulla potatura della siepe, che si aiutavano tra loro per spostare calcinacci e si davano pacche di conforto sulle spalle. Coinquilini che litigano ad ogni riunione condominiale o che, peggio ancora, non si conoscono pur abitando nelle stesse palazzine, che facevano squadra, si davano il cambio per portare fuori la roba dalle case, nel fare la guardia alle autovetture aperte, nel montare la tenda, aprire sedie a sdraio, dare la precedenza con gentilezza gli uni agli altri per l’accesso ai posti a sedere, apparecchiare nei giardini pubblici tavole aperte a tutti. Vigili urbani poco simpatici quando davano multe che in quei momenti risultavano umani, più che umani, amici che si davano da fare per la sicurezza di tutti. Nonne che sedute con il plaid sulle gambe, in cortile, dicevano ai nipoti e ai giovani in generale: “coraggio ragazzi!”, come a dire che se loro erano arrivate fin lì era anche perché erano riuscite a essere forti nei momenti cruciali, e questo ci tenevano a trasmettere anche questa volta, ennesimo consiglio delle nostre troppo spesso inascoltate nonne. Volontari sconosciuti venuti da non si sa quale parte d’Italia che si abbracciavano con una forza mai vista prima con il figlio della donna estratta viva da sotto le macerie. Immigrati, questi sconosciuti, che avevano il terrore negli occhi esattamente come tutti ed esattamente come tutti stringevano mani, cercavano il dialogo, facevano il possibile. Gente che fino al giorno prima si infuriava se perdeva 5 minuti di prezioso tempo di lavoro, che si presentava a tempo indeterminato per vedere se poteva aiutare, se poteva fare qualcosa, che ci restava male quando gli dicevano che  non era possibile coordinare tutti e che quindi non serviva, gente che allora cercava di aiutare semplicemente scambiando sorrisi, semplicemente condividendo con l’espressione il dolore per la situazione, semplicemente dicendo alle persone più sole “come va, se posso fare qualcosa io ci sono”.

La gente si abbracciava. La forte, dignitosa, onesta gente della bassa si abbracciava. Questa situazione, nella sua crudissima drammaticità sembra abbia riportato a galla quella solidarietà tra persone, quella comunicazione intima, quell’empatia tra vicini che quando va tutto bene si perde nelle pieghe dell’egoismo. La gente si abbracciava, questo mi sembra il dato che al di là di ogni possibile analisi sociale, giornalistica, sensazionalistica, sia importante.

*Sociologo

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