La dignità si realizza attraverso l’acquisizione di libertà e diritti

Un punto di vista laico sulla Dichiarazione Dignitas infinita della Santa Sede

Il Dicastero per la Dottrina della Fede della Santa Sede ha licenziato di recente, dopo lunga gestazione, una “Dichiarazione”, approvata da Papa Francesco, intitolata Dignitas infinita. È un documento importante che ripercorre e rilancia il tema della dignità umana in un momento storico nel quale, accanto a progressi in molti ambiti, si registrano fenomeni di regressione e di restringimento delle libertà, e dunque dei diritti individuali a tutela della dignità stessa.

«Una dignità infinita, inalienabilmente fondata nel suo stesso essere – vi si legge –, spetta a ciascuna persona umana, al di là di ogni circostanza e in situazione si trovi». E ancora: «Il rispetto della dignità di ciascuno e di tutti è, infatti, la base imprescindibile per l’esistenza stessa di ogni società che si pretende fondata sul giusto diritto e non sulla forza del potere. Sulla base del riconoscimento della dignità umana si sostengono i diritti umani fondamentali, che precedono e fondano ogni civile convivenza». Si parla di “dignità ontologica della persona umana”, distinta da altre sue dimensioni: dignità moraledignità sociale ed infine dignità esistenziale. L’aggettivo ontologico indica che essa è inerente alla persona umana in quanto tale, in quanto esiste essendo stata creata «ad immagine e somiglianza di Dio e redento in Cristo Gesù».

Non è ora il caso di soffermarsi sul fatto che sia possibile considerare ultronea tale quadruplice distinzione e che si debba considerare la dignità come valore unitario che contraddistingue l’essere umano in quanto tale, seppure si manifesti in vari ambiti e contesti relazionali. Anche la genesi fondativa può essere diversa e non ridursi a un’argomentazione di natura esclusivamente o prevalentemente teologica, com’è legittimo e naturale per un documento ecclesiastico, ma spingersi ad argomentazioni squisitamente filosofiche. Vi accennerò fra un momento.

L’importante è assumerla in tutta la sua portata di valore orientativo nella pratica politica, sociale e quotidiana e nelle interrelazioni umane; riconoscerne non solo la portata universale, ma anche la valenza profondamente laica. I numerosi riferimenti ai passaggi della Dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, dimostrano che tale riconoscimento di laicità, sia pure implicitamente, vi è contenuto. Nel documento dell’ONU approvato nel 1948, la dignità è, infatti, dichiarata «inerente a tutti i membri della famiglia umana», e l’articolo 1 recita: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti».In aggiunta, non si può non richiamare anche la Carta dei diritti fondamentale dell’Unione europea (approvata a Nizza nel 2001) che dedica il primo dei sei Titoli proprio alla Dignità e si apre con le parole: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata». Negli articoli che ne conseguono si specificano il diritto alla vita e all’integrità della persona, la proibizione della tortura e delle pene o trattamenti inutili e degradanti, proibizione della schiavitù e del lavoro forzato. E ancora, non si può non citare la Grundgesetz tedesca del 1949 nella quale la dignità è definita “intangibile”.

Quanto all’argomentazione etico-filosofica, il massimo teorico del valore della dignità umana in senso laico è senza dubbio Emanuele Kant, che approfondisce e affina concetti elaborati già da Pico della Mirandola nel suo De hominis dignitate, dove la dignità dell’uomo viene individuata nella capacità di forgiare il proprio destino secondo la propria volontà e libertà. La dignità è un divenire, come è in divenire l’uomo, non legato soltanto all’Essere.

Il maggior contributo kantiano alla discussione sulla dignità consiste nel collegarla strettamente con la libertà, la ragione e l’autonomia. Quest’ultima diventa primaria poiché l’uomo viene definito come un essere meritevole di dignità assoluta proprio perché è soggetto capace di autonomia morale; capace di darsi da sé la legge. È legislatore universale. È tale capacità autolegislatrice, che appartiene soltanto agli umani, che conferisce alla persona quel valore intrinseco assoluto che è la dignità. Ne consegue un principio di eguaglianza nella dignità, giacché tutti portiamo dentro di noi la legge morale alla quale siamo soggetti. Kant non fa ricorso a entità trascendenti per giustificare la natura intrinsecamente umana della dignità, ma ne trova il fondamento precisamente nell’autonomia e nell’essere ragionevole dell’uomo. Per questo l’uomo non può essere trattato «da un altro uomo o da se stesso come un semplice mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine». La sua facoltà morale gli attribuisce un valore assoluto che non può essere scambiato con nessun altro valore.

Sostenere che la dignità è un valore intrinseco della persona umana non ne fa tuttavia un valore “ontologico” giacché essa è legata al riconoscimento dell’essere umano in quanto capace di ragione, di autonomia, di legislazione morale universale. Essa viene poi concretizzata attraverso l’acquisizione progressiva di riconoscimenti e diritti; si rafforza nel processo di civilizzazione, di progressiva integrazione umana. È parte integrante dell’uomo, perché lo diventa. In questo senso, è un concetto “fragile”, vulnerabile. Però è indubbio che storicamente, nel secondo Novecento, come sostiene Stefano Rodotà, si registri una “rivoluzione della dignità”, per quanto figlia di eventi tragici quali la Shoah e il dominio totale sull’uomo. Si compie, cioè, il salto dall’homo aequalis all’homo dignus.

Tornando ai contenuti della Dichiarazione, come rivela il Prefetto card. Víctor Manuel Fernández nella presentazione, Papa Francesco ha chiesto di non fermarsi alle questioni etiche tradizionalmente all’attenzione dei documenti ecclesiastici, ma, nella trattazione dei casi gravi di violazione della dignità umana, di allargare lo sguardo a temi più di natura sociale, come le migrazioni, il dramma della povertà e la tratta delle persone, o geopolitici, come la guerra, oppure che riguardano gli effetti delle nuove tecnologie informatiche, come l’intelligenza artificiale. Da sottolineare anche il rilievo dato agli abusi sessuali e agli effetti devastanti delle violenze sulle donne fino al fenomeno, che non accenna a diminuire, dei femminicidi. Si riconosce che essi hanno origine dalle diseguaglianze fra i generi, che ancora persistono anche in società avanzate e democratiche, e dal fatto che non si riconosce alle donne la stessa dignità degli uomini, come se le donne – va aggiunto – avessero minore valore e potessero essere assimilate a oggetti da possedere, riducendone l’esercizio delle libertà. Le femministe usano il termine patriarcato per indicare tale relazione fra i sessi basata sul dominio maschile.

L’ultima parte della Dichiarazione è dedicata proprio ai numerosi e variegati casi nei quali l’inalienabile dignità che spetta ad ogni essere umano non è adeguatamente riconosciuta oppure totalmente violata. E qui vengono richiamate le situazioni alle quali ho già accennato – dai migranti, ai più svantaggiati: agli “scartati”; dalle guerre alle violenze e alla tratta di esseri umani –, però anche fenomeni che attengono al corpo e ai diritti riproduttivi delle donne. E su questo si registra una storica differenza fra la cultura laica più democratica e liberale e le posizioni della Chiesa. Posizioni legittime, com’è evidente, nell’ambito del suo Magistero, sebbene anche quest’ultimo non sia statico e immutabile, ma sempre in fieri. Il problema sorge quando la politica se ne appropria per ampliare il suo consenso.

Sul rapporto fra destra politica e Chiesa in Italia.

La destra italiana lo fa da sempre, ma direi che negli ultimi anni il connubio si sia intensificato e focalizzato non sui temi sociali sopra richiamati (dai migranti alla povertà ecc.), bensì soprattutto sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”, che riguardano il corpo, la morte, la nascita. Ricordo un fatto storico. Il 14 novembre 2002 Papa Woytila venne in Parlamento, invitato dagli allora presidenti delle Camere Pierferdinando Casini e Marcello Pera, governo Berlusconi regnante. Ebbi il privilegio di ascoltarlo dal vivo. Il Papa chiedeva tre cose alla politica: la pace (era calda la questione dell’intervento in Iraq); l’indulto per alleggerire le carceri; una legge sulla procreazione medicalmente assistita – allora in discussione – che almeno salvaguardasse lo statuto giuridico dell’embrione come persona. La sua voce rimase inascoltata sulle prime due richieste. La terza era invece l’unica sulla quale tutta la maggioranza potesse convergere, non importa se a scapito della salute delle donne e della genitorialità responsabile. Ne venne fuori un obbrobrio giuridico, poi per fortuna smontato pezzo dopo pezzo dalla Corte Costituzionale.

La storia si è ripetuta con la legge sul fine vita durante la vicenda di Eluana Englaro. Non si riesce ad approvare una legge contro l’omotransfobia e non è passata la “stepchild adoption” (cioè l’adozione di un/a figlio/a da parte dell’altra/o partner) nella legge sulle unioni civili, facendo così venire meno il principio del superiore interesse del bambino, con il paradosso giuridico che si tutela la dignità dell’embrione, ma non il diritto del bambino ad avere due genitori, quando questo è possibile.

La storia continua a ripetersi sugli altri temi eticamente caldi: la gestazione per altri, la presunta teoria gender, la disforia di genere, oltre che sul tema classico dell’aborto. Sono i temi sui quali si registrano le convergenze più significative fra i populisti, impegnati a promuovere democrazie illiberali e autoritarie in tutto il mondo, e le posizioni della Chiesa ribadite anche nella succitata Dichiarazione. Il problema sorge, cioè, quando andiamo a declinare il valore della dignità nella concretezza dei problemi e nel contesto storico delle evoluzioni scientifiche e tecnologiche. Ed è in tali contesti che si registrano le differenze, che possono divenire anche difficilmente conciliabili, fra chi ne tiene conto e chi invece si attesta su posizioni irremovibili e non negoziabili. Qui sta l’importanza di considerare la dignità in una dimensione non prettamente ontologica – come se fosse una cosa – ma morale. La dimensione morale consente di arricchire la dignità tenendo conto dei nuovi contesti.

È il caso delle tecnologie riproduttive, dalla fecondazione artificiale alla gestazione per altri, passando per la supposta teoria gender. Temi sui quali soprattutto la destra populista mira ad assimilare le posizioni della Chiesa in cerca di consenso. Ricordo che da alcune associazioni fu scatenato un rumoroso family day soltanto perché nel provvedimento sulla buona scuola nel 2017 era stato inserito un articolo sull’educazione alla parità fra uomini e donne al fine di prevenire la violenza sulle donne. Un passaggio quanto mai importante per creare relazioni fra i sessi non basate sul dominio veniva scambiato per e presentato come teoria gender.

L’insistenza su quest’ultima è qualcosa di surreale perché basata sul nulla. Non c’è nessuno, infatti, che prospetti «una società senza differenze di sesso» o che miri a svuotare «la base antropologica della famiglia». Possono esistere però situazioni esistenziali di singole persone che soffrono di disforia, cioè di non coincidenza fra sesso biologico e identità di genere, fra corpo e psiche. E anche queste persone hanno diritto alla dignità. Lo stesso vale per la gestazione per altri come reato universale. Perché considerarla semplicemente nell’ordine del commercio e non invece come un gesto di solidarietà, di generosità, da parte di donne che sentono di volerlo e poterlo fare, come scelta pro life?

Regolamentarla attraverso norme chiare sarebbe un modo per salvaguardare la dignità e i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il superiore interesse del bambino, oltre che il diritto ad avere una famiglia, di cui parla la Carta di Nizza. Ha ragione Anna Loretoni quando argomenta come «la torsione illiberale di alcune democrazie sia intimamente connessa non solo alla limitazione dei diritti politici, come spesso si evidenzia, ma anche alla negazione dei diritti sessuali e riproduttivi» (A. Loretoni, I rischi regressivi delle liberaldemocrazie. Genere e diritti riproduttivi, Paradoxa, 1/2024.). Ciò è «espressione di quel conservatorismo sociale che a livello globale sta costruendo, proprio sul corpo delle donne, una spinta regressiva» (Ivi).

In Italia, lo slogan regressivo e tradizionalista adottato dalla destra – “Dio Patria Famiglia” – sintetizza bene tale direzione, peraltro già concretizzatasi in provvedimenti restrittivi dell’autodeterminazione delle donne (come il finanziamento della presenza di associazioni pro life nei consultori); le direttive dei Prefetti contro l’iscrizione nei registri anagrafici dei bambini nati con la gestazione per altri, con la conseguenza di cancellare o limitare diritti acquisiti in termini di famiglie omogenitoriali; proposte di legge per introdurre la fattispecie di reato universale per la gestazione per altri (che diventerebbe un’altra legge manifesto per l’impossibilità pratica di renderla attuativa); parlare di “cattivi maestri” che negli anni avrebbero denigrato la genitorialità (come ha fatto la presidente del Consiglio).

Tutto ciò ci dice che, anche quando a governare sono le donne, a destra il connubio con la Chiesa è a sfavore delle donne senza che si riesca tuttavia ad assumere quegli elementi di sofferenza e disagio sociale che riguardano le povertà, le emarginazioni, le vulnerabilità. È questo un passaggio di quella china illiberale, che può arrivare fino alla tirannia, che la filosofa ungherese Ágnes Heller, con molta lungimiranza, ha ribattezzato “orbanismo” (Á. Heller, Orbanismo. Il caso dell’Ungheria: dalla democrazia liberale alla tirannia, Castelvecchi, 2019).

Foto, Emanuele Kant

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