La cultura va in piazza? Sì, se paghi però

Firenze – La cultura si paga, signori. Anche se è in piazza, anche se si tratta di un cantautore “popolare” (per le tematiche, precisiamo), anche se “il biglietto è alla portata di tutti”. Di tutti? Strano. Quarantotto o trentadue euro, niente. Almeno secondo il produttore , che dice che il prezzo dei biglietti era molto più basso rispetto ad altri eventi simili. Certo, nessun dubbio. Ma forse il produttore non sa che gli stipendi odierni, quando vanno dagli 800 euro ai mille, è già grassa. E allora, 48 euro in più o in meno fanno la differenza: si tratta di una bolletta, della spesa, e di cos’altro, poi?

Ma non vogliamo entrare in questo tema, che ci porterebbe a sottolineare, di nuovo, l’abisso che separa il Paese, fra chi ritiene che 48 euro siano risibili, come consistenza di denaro, e chi ci compra il pane e qualcos’altro, e gli rimane niente. Ciò che a nostro parere è molto più grave, è l’affermazione del sindaco di Pisa che parla, in sintesi, di nostalgia degli anni Settanta di cui sarebbero afflitti gli studenti che qualche sera fa hanno interrotto il concerto di Vinicio Capossela. Già, perché di questo si tratta: aver guadagnato un palco tirato su in una pubblica piazza (quella dei Cavalieri a Pisa) escludendo chi non pagava. Spazio pubblico per paganti, soprattutto, cultura in spazio pubblico per paganti.

Ed ecco il nocciolo: la cultura è appannaggio di chi paga? Meglio: la cultura è per chi arriva agevolmente a fine mese e può pagarsi il lusso? Allora: la cultura è un lusso? Se è così, non usufruite dello spazio pubblico, almeno: chiudetevi nei teatri e nelle sale, e fate pagare fior di bigliettoni. Ma se non è così, se la cultura è un bene comune, nelle piazze dev’essere aperta a tutti. A tutti, perché la piazza, almeno quella, da che mondo è mondo, è pubblica. E la cultura se va in piazza dev’essere accessibile a tutti. Perché il ruolo della cultura è popolare, come ben sapevano gli antichi Greci (il teatro greco, qualcuno se lo ricorda?…).

Insomma, altro che nostalgici degli anni ’70. Qui si parla di una conquista, o riconquista, di civiltà: la cultura è un bene comune, lo spazio cittadino è un bene comune. La cultura in un spazio pubblico è bene comune. Allora, da brividi la prospettiva di fare concerti, in piazza, con cordone di agenti. Chi paga dentro, chi no fuori. Insomma, la cultura è un lusso. Per pochi. E allora, scusate, si parla di una sconfitta. Di civiltà.

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