Nel clima culturale degli anni Duemila una tra le più grandi novità è il discorso queer. Qualcosa di molto diverso dall’impegno per i diritti delle identità sessuali o di genere «minoritarie», già presente nel discorso progressista novecentesco. Il pensiero queer vuole mettere in radicale discussione il binarismo: cioè l’idea che il genere umano sia diviso in due grandi metà, donne e uomini. Il riconoscimento dell’omosessualità come perfettamente normale e legittima non aveva bisogno di fare questo passo. I movimenti LGBT sostenevano la possibilità di contaminazioni o inversioni, e svincolavano il genere dal sesso biologico: ma non avevano bisogno di negare la metafisica binaria.
Quando all’acronimo si aggiunge invece la Q di queer, e magari il +, le cose cambiano. Il dualismo dei sessi, si sostiene, è una artificiosa invenzione dell’Occidente, del maschilismo, del «potere»: la vera liberazione consiste nel pensare il genere come un continuum fluido di posizioni diverse. E addirittura si può affermare che la Natura e l’universo sono intrinsecamente queer, con la conseguenza che le stesse scienze naturali devono diventare queer[i], e così via. Una metafisica alternativa a quella binaria, insomma. Tutto questo sarebbe molto interessante, se non fosse per una fastidiosa tendenza a trasformare un approccio critico e provocatorio in una ideologia dogmatica e militante che si nutre di correttezza politica.
Con due problemi che si aprono, uno pratico, l’altro teorico. Sul piano pratico o politico, la dissoluzione del binarismo alimenta la cosiddetta «politica delle identità», che specie nelle classi alte dei paesi anglosassoni è diventata segno distintivo del progressismo. Una tendenza che scaturisce dalla sacrosanta difesa dei diritti, ma sconfina spesso in forme di essenzializzazione delle appartenenze di genere: con un conseguente determinismo che, in una specie di caricatura del classico femminismo, fa dipendere dall’identità sessuale le idee, i valori, le forme della conoscenza. Viene in questo modo del tutto abbandonata l’istanza universalista che dall’Illuminismo in poi era stata il contrassegno del progressismo. Sul piano teorico, il problema è: davvero il binarismo è un sottoprodotto del potere dell’Occidente, una nostra credenza folk che spacciamo per «naturale»? Davvero nelle altre culture la dicotomia donna-uomo non esiste?
Una buona parte dell’antropologia sembra oggi sostenere questa posizione, perché crede di apparire così più progressista. E porta esempi di culture altre in cui esistono identità di genere intermedie, o variabili. Ma i casi particolari, le eccezioni alla regola, non dimostrano che la regola non esiste. Francamente, devo ancora conoscere una cultura in cui la sessualità non sia concepita in modo dualistico: i sessi o i generi possono incrociarsi in vario modo, ma restano due, uno che partorisce e l’altro no. Solo che pare non lo si possa dire senza qualificarsi come vecchi reazionari.
[i] K. Barad, Performatività della natura. Quanto e queer, trad. it. a cura di E. Bougleux, ETS, Pisa 2017.
Fabio Dei è docente di Antropologia culturale all’Università di Pisa . Il testo è pubblicato sulla rivista Testimonianze “Anche gli anni Duemila hanno un’anima?” n.550-551