La Colonna infame, primo legal thriller della storia letteraria

Omaggio ad Alessandro Manzoni nel 150° anniversario della morte

È famosissimo il ‘lieto fine’ dei Promessi sposi con Renzo che snocciola come una giaculatoria le innumerevoli cose che ha imparato durante le sue lunghe peripezie, mentre Lucia confessa con la sua abituale modestia di aver imparato ben poco dalle sue avventure in quanto i guai non se l’è andati a cercare lei perché “son loro che sono venuti a cercar me”. La scena ha pure, nell’edizione del 1840 illustrata da Francesco Gonin, un risvolto iconografico. Nella vignetta appaiono i fidanzati, ormai convolati a giuste nozze: Renzo in piedi nel gesto di esporre il “sugo di tutta la storia”, al suo fianco Lucia che lo ascolta con attenzione, mentre Agnese coccola estasiata la piccola Maria.

Un quadretto di felicità domestica che viene però compromesso dall’illustrazione con cui inizia, proprio nella pagina accanto la Storia della colonna infame che Manzoni volle pubblicare insieme al romanzo. Da una casa accogliente dove trionfa l’armonia e la serenità, ad una casa in rovina, distrutta dalle fondamenta, con le macerie su cui incombe una triste colonna con una lapide: è la colonna infame, che segnò, proprio durante l’epidemia di peste narrata negli ultimi capitoli dei Promessi sposi, la tragica disgrazia di un’intera famiglia.

Tutto ha inizio a Milano, il 21 giugno del 1630: mentre infuria la peste e la credulità popolare che ne attribuisce la responsabilità ai diabolici “untori”, una certa Caterina Rosa, affacciandosi alla finestra vede “un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi” che cammina soprappensiero sfiorando di tanto in tanto con le mani le mura delle case.  Tanto basta per credere che si tratti di “uno di quelli che, a’ giorni passati, andauano ongendo le muraglie” e per denunciarlo alle autorità. Guglielmo Piazza è arrestato e per far cessare la tortura che gli viene subito inflitta, confessa di far parte di un complotto diabolico per seminare la morte nella città, inventando anche i nomi dei complici.

Inizia così il processo sommario a dei poveri innocenti che finiranno squartati pubblicamente secondo i protocolli sanguinari che prevedeva la giustizia dell’epoca. La casa di uno di loro, il barbiere Giangiacomo Mora, accusato di fabbricare l’unguento velenoso, è rasa al suolo ed al suo posto collocata una colonna denominata “infame”, con una lapide (che si conserva tuttora nel Castello Sforzesco di Milano) dove erano scolpiti i nomi degli untori e la condanna che fu loro applicata, con la raccomandazione per i “buoni cittadini” di tenersi alla larga affinché quel luogo “infame e maledetto” non li contaminasse. A Gian Giacomo Mora il Comune di Milano ha intitolato, in segno di riconoscimento della sua innocenza, la via dove sorgeva anticamente la sua casa. E proprio pochi mesi fa, nel clima dell’incipiente anniversario manzoniano, il Palazzo di Giustizia della città ha collocato al suo interno una stele di riparazione per l’ingiustizia subita da Gian Giacomo Mora dedicata, vi si legge, “A lui e agli altri innocenti vittime in ogni tempo dei pregiudizi e dei fantasmi”.

Alessandro Manzoni, nell’allestire la cornice storica dei Promessi sposi, si imbatte negli atti del processo ma non se la sente di inserire l’episodio nella già lunga digressione in cui si racconta della peste e decide di riservarlo “a un altro scritto”. È l’atto di nascita della Storia della colonna infame che vedrà la luce molti anni dopo, nel 1840, deludendo le aspettative del pubblico che si aspettava la continuazione della storia dei due “fidanzati”. Lo scrittore che, non a caso, era nipote del grande giurista Cesare Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene, si ritrova nelle mani un caso giudiziario scandaloso, che pur appartenendo ad un passato lontano, meritava, a suo giudizio, di essere riaperto. Manzoni qui indossa i panni di un implacabile pubblico ministero a caccia della verità.

Il suo obbiettivo è dimostrare che i giudici, pur con “la più ferma persuasione dell’efficacia delle unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti […] dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorare l’ingiustizia”.  Erano, insomma, anche se sottoposti ad una grande pressione sociale, in grado di esercitare il libero arbitrio e di emettere una giusta sentenza. La Storia della colonna infame inaugura con molto anticipo il genere letterario del romanzo inchiesta su casi giudiziari o su episodi di flagrante ingiustizia in cui eccellerà, più di un secolo dopo, lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, non a caso grande ammiratore e discepolo dichiarato di Manzoni, autore inoltre di diversi saggi su di lui, tra cui uno che fa da introduzione ad una edizione della Colonna infame (Bompiani, 1985) che l’editore Sellerio di Palermo ha deciso, proprio in questi tempi di contagi e di fake news, di ripubblicare.

Ma torniamo al processo: dopo la requisitoria di Manzoni contro i giudici, di cui fa nome e cognome, sembrava che il caso fosse definitivamente chiuso, ma non è stato così. Quella sete di giustizia che trapelava dalla sua scrittura ed in fondo il suo affanno per difendere l’esercizio del libero arbitrio anche in epoche in cui la barbarie rischiava di spegnerlo, ha fatto storcere il naso a parecchie persone. Il primo è stato lo studioso Fausto Nicolini: nel 1937, in anni in cui il libero arbitrio, in Italia, non era molto ben visto dal regime, pubblicò il saggio La peste e gli untori ne “I promessi sposi” e nella realtà storica. Al Nicolini sembra che stesse molto a cuore la sorte dei giudici milanesi: a suo avviso, dato il clima di follia collettiva, dovuta all’aumentare progressivo dei decessi e alla psicosi del complotto ordito dal sovrano spagnolo Filippo IV che governava la Lombardia, non potevano agire altrimenti a meno di far spostare il processo, per “legittima suspicione” si direbbe oggi, in una sede più neutrale, possibilità che la legge, in quell’epoca, non prevedeva. Manzoni è, a suo avviso, un giudice poco attendibile, spinto per di più da un “moralismo morboso”, ed il suo è “il più infelice fra i tentativi […] compiuti nel campo della storiografia”.  

Il saggio ribadiva teorie già esposte dal Nicolini in un precedente Aspetti della vita italo-spagnola nel Cinque e Seicento, come quella relativa alla dominazione spagnola in Italia che, afferma, “pur essendo in se stessa un male, può, in un certo senso, essere considerata perfino benefica perché, tra l’altro evitò a gran parte d’Italia […] il male, tanto maggiore, di cadere sotto il dominio francese […]”. Ancora dalla parte dei giudici e quindi contro Manzoni, accusato di aver falsificato prove e testimonianze, si è pure schierato, in anni più recenti, Franco Cordero, ordinario di procedura penale nell’Università di Roma, nel saggio La fabbrica della peste del 1984, in un capitolo intitolato, sarcasticamente, Poltergeist.[1]

Sembra quasi che sia Manzoni l’imputato del processo. Cordero lo accusa di perseguitare i “giudici con una rabbia inquisitoria davanti a cui impallidiscono i metodi usati su Mora e Piazza”, di usare “una lingua obesa” e “stilemi a basso livello istrionesco”, ed infine di non aver “capito niente della macchina inquisitoria”. In questa circostanza, a intervenire a difesa dello scrittore, ci fu, tra gli altri, l’allora Ministro di Grazia e Giustizia, Mino Martinazzoli, in un libretto del 1985 intitolato Pretesti per una requisitoria manzoniana. Sul versante giuridico, afferma Martinazzoli, la Colonna infame costituisce un modello impeccabile di revisione di un errore giudiziario ed una “meditata rielaborazione del montaggio che tende ad eliminare tutte le indulgenze del racconto, a prosciugarle quasi, per ottenere il ritmo […] e le scansioni di una requisitoria”.

La struttura narrativa ripercorre infatti quella di un processo con la “descrizione del fatto […] la verifica delle prove e la confutazione delle obiezioni” ed anche l’arringa finale. In occasione dell’inaugurazione a Brescia , nel settembre del 2016, di un busto dedicato alla memoria del politico democristiano scomparso cinque anni prima, il Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ricordando la sua grande cultura giuridica, citava le pagine della Requisitoria manzoniana dedicate alla Colonna infame, “pagine -diceva- che aiutano il lettore a rendersi conto che la giustizia va affermata e realizzata nella sostanza delle sue decisioni ma anche negli strumenti con cui viene applicata”.

Alla Colonna infame il capo dello stato ha dedicato una riflessione finale nel bellissimo discorso pronunciato a Milano lo scorso 22 maggio alla cerimonia in occasione del 150º anniversario della morte dello scrittore. La Storia della colonna infame viene definita “un capolavoro di letteratura civile [che] ci ammonisce di quanto siano perniciosi gli umori delle folle anonime, i pregiudizi, gli stereotipi; e di quali rischi si corrano quando i detentori del potere – politico, legislativo, giudiziario- si adoperino per compiacerli ad ogni costo, cercando soltanto un consenso effimero. Un combinato micidiale, che invece di produrre giustizia, ordine e prosperità -che è il compito di chi è chiamato a dirigere- produce tragedie, lutti e rovine”.


[1] Poltergeist, che in tedesco indica una particolare varietà di “fenomeno paranormale”, cioè uno spirito o fantasma rumoroso, è anche il titolo di un film con cui iniziò, nel 1982, una saga cinematografica dell’orrore che ebbe un grande successo. In quegli anni era un termine di moda, per cui è probabile che Cordero se ne sia servito intenzionalmente.

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