Firenze – «La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scolpiti dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; quest’imminenza di una rivelazione che non si produce è forse il fatto estetico.»
(Luis Borges, La muraglia e i libri, in Altre inquisizioni)
La città pentagonale
Fu in quel che restava del diario di un mercante di pelli, trovato per caso nel sūq di un villaggio sperduto, che vennero rinvenute le prime notizie dell’esistenza di una città sconosciuta, una città fortificata, ignota ai catasti imperiali, che i nativi della regione vagheggiavano di aver visto dalla cima di una collina ma di non saperla descrivere. Raccontavano di valli rigogliose, di catene montuose, di vulcani innevati, ma si limitavano a tracciare sul terreno una figura geometrica a rappresentare quella che, nel tempo, prese il nome di Città Pentagonale.
Spedizioni di geografi e cartografi si susseguirono inutilmente alla sua ricerca fino a che non si decise di affrontare la cosa interrogando un consesso di sapienti, scienziati matematici antropologi mitografi esoteristi, i quali tennero una serie di conferenze sul tema che stava loro più a cuore: la geometria euclidea e i suoi simboli, le sue allegorie, i suoi miti.
Fu così che si appresero le proprietà misteriose di figure apparentemente semplici, disegnate tante volte sulla sabbia, e se ne imparò la costruzione e la rappresentazione. E se ne conobbero le molteplici qualità, fino a capirne le ragioni più profonde della loro perfezione.
I dotti si interrogarono poi sulla forma della città, sui possibili fondamenti del suo disegno così astrattamente geometrico, sulla configurazione così rigorosamente poligonale: Il pentagono regolare, con le sue congruenze, i suoi lati e angoli tutti uguali, i suoi cinque assi di simmetria.
E soprattutto le sue particolarità: il pentagono incrociato, il pentaculum, la stella a cinque punte tracciata dalle sue diagonali interne o dal prolungamento esterno dei suoi lati in un crescendo senza fine di estensioni pentagonali e di propagazioni stellari. La stella, con tutti i suoi emblemi, i suoi segni, fausti e infausti, la saggezza l’uguaglianza la legge la giustizia, e ancora, l’occultismo lo spiritismo le potenze demoniache. Ma anche le sue virtù magiche, il numero d’oro, la divina proporzione che stabilisce la misura delle sue punte triangolari e il suo processo di espansione in pentagoni e stelle sempre più grandi, in un rapporto costante, governato ancora dal numero aureo.
Ci fu poi chi riconobbe nel mistico disegno la forma della città ideale, la città fortezza, con la sua corona di mura, di spalti, di terrapieni, di salienti, che nessun nemico sarebbe stato in grado di assediare e conquistare.
Fu così allora che si decise la nuova spedizione. Abbandonate carovaniere e cammelli, piste di sabbia e accampamenti di fortuna, si dispiegarono le carte, si misero in evidenza colline e montagne, si studiarono i venti prevalenti, la stagionalità, la direzione, l’intensità, la velocità. Si predispose l’attrezzatura, gli strumenti di rilevazione, l’equipaggiamento per il tempo strettamente necessario allo svolgimento delle ricerche. E si prepararono i palloni aerostatici.
La città che finalmente si rivelava all’osservatore la situano i più recenti rilievi topografici al centro di un vasto pianoro, circondato da colline e montagne innevate e pare sufficientemente conservata. Si possono ancora leggere chiaramente le tracce al suolo delle diverse espansioni, i fossati che la circondano e che un tempo si allagavano in virtù del corso d’acqua che la lambiva, i bastioni e i terrapieni che la contornano e che occultano altre ulteriori estensioni.
Ma ciò che sorprende è l’uniformità e la tetra compattezza dei corpi murati, che occupano, in forma di pentagramma, l’interno del primo pentagono, il suo nucleo originario, la città inviolabile.
Chi pensa alle città che ha conosciuto, fatte di case, di chiese, di scuole, di ospedali, di strade e di piazze, rimane disorientato. Il viandante o il girovago non può distinguerne gli elementi che a distanza la identificano: il campanile della cattedrale, la torre del municipio, la cupola della sinagoga, le tettoie del mercato, i padiglioni delle scuderie, il tendone del circo equestre.
E tuttavia, introducendosi nel reticolo dei suoi molteplici bracci, si può constatare che tutte le funzioni potevano svolgersi utilizzando gli spazi interni secondo le diverse necessità. La barriera mobile racconta di un corpo di guardia, la cancellata di ferro di una prigione, il forno di un crematorio, la vasca d’acqua di un bagno turco, le botti di rovere di una taverna, l’altare di alabastro di un tempio, l’edicola di una erbivendola, i plutei di pietra di una biblioteca.
Ma ciò che maggiormente stupisce e turba il visitatore, è l’intricata diramazione dei passaggi coperti contrapposta alla sinistra semplicità delle forme esterne. Il rigore geometrico di queste, imposto dalle regole della costruzione e dai canoni della proporzione aurea, contrasta con la tortuosità labirintica dei collegamenti interni e con i vincoli degli edifici che si affacciano solo su angusti cortili tramite finestrucole munite di inferriate. Gli esperti ritengono che si trattasse della volontà imperiale di costringere i suoi sudditi a vivere perennemente dentro queste mura per meglio affrontare restrizioni più dolorose nel caso di guerre o di carestie. Si racconta anzi che ai tempi delle invasioni tartare e kirghise la popolazione della città pentagonale fosse costretta a ripararsi nei suoi più profondi sotterranei, predisposti per sopravvivere alle eventuali irruzioni e scorrerie degli aggressori. Sebbene non ci fosse abitante che non sapesse che questa circostanza non si sarebbe mai realizzata, nella certezza che, qualora nonostante tutto si fosse avverata, gi invasori sarebbero rimasti imprigionati nel dedalo inestricabile dei corridoi e delle rampe più tortuose.
Molti si chiedono se la città pentagonale fosse una città felice. Non è dato di sapere.
Anche se si racconta di certi crepuscoli limpidi e freschi di fine estate quando gli abitanti di ogni età correvano sugli spalti per attendere il tramonto del sole dietro le nuvole, il calar della sera e il sorgere della luna piena, o lo spuntare dell’alba dallo specchio di mare che si scorgeva all’orizzonte. Ma si racconta soprattutto di certe notti d’autunno quando allo spuntare delle stelle di Amaltea, giovani e vecchi si abbandonavano a scrutare, nel pentagono degli astri sfolgoranti di Auriga, lo specchio celeste della città terrena e ne vagheggiavano le più alte qualità e i più elevati sentimenti: un’altra città pentagonale che sarebbe vissuta in pace e in prosperità dilatandosi come una pianta di aloe che cresce moltiplicando senza fine le sue foglie in tutte le direzioni del piano.
Una città di mura di diaspro, di baluardi trasformati in giardini lussureggianti, di agrumeti odorosi, di orti aromatici, di passeggiate ombrose lungo le mura, di fontane di onice pakistano, di specchi d’acqua e zampilli rinfrescanti, di abitazioni pensili appese alle mura dei salienti, di ballatoi aerei, di gazebi di quarzo rosa, di terrazze pubbliche che si affacciano sulla pianura disseminata di zeribe di arancio selvatico, di cavalli mongoli, di capre tibetane, di antilopi tatariche.
Una città dove per i camminamenti lastricati di lapislazzulo la gente si tiene per mano mentre negli spiazzi erbosi si festeggia l’arrivo della primavera con canti e balli, i bambini scorrazzano guardando a testa in su il volteggiare di cento aquiloni, i vecchi seduti sulle panche di legno si raccontano storie buffe giocando agli astragali e sul bastione antistante la compagnia di fanciulle ride al passaggio di un giovane che suona l’olifante. Una città dove lungo la lizza si snodano i cortei di maschere che lanciano stelle filanti e confetti mentre librano in aria i palloni di carta colorata che cerbottane impertinenti cercano di colpire.
E se qualcuno volesse avventurarsi nei meandri della città murata, non troverebbe più uomini armati in assetto di guerra, artificieri o addetti ai depositi di fuoco greco né donne e bambini affetti da turbe claustrofobiche o da deperimento fisico per carenza di acqua e di cibo.
Troverebbe, lungo corridoi interminabili e scale senza fine, in quelli che erano un tempo gli alloggi della truppa, laboratori virtuosi dove costruttori di clessidre e di astrolabi, fabbricanti di lanterne celesti e di girandole a vento, illustratori di zodiaci e di meridiane, fochisti di stelle luminose e maestri liutai gli sorriderebbero e lo accoglierebbero, invitandolo a visitare il loro banco e il loro lavoro.
Un sogno dunque, un sogno che si riempie di altri sogni, un’attesa che racchiude altre attese: un suono di flauto, un canto notturno, un cavallo alato, un volto di donna dai capelli corvini e dagli occhi di madreperla che legge canzoni d’amore. Un’attesa di qualcosa che non si rivela, un desiderio che non si realizza, un sogno che svanisce. Ma uno stato di grazia in cui l’infelicità della vita si scioglie dolcemente, come neve al sole.
Massimo Gennari Simona Lazzerini