Pisa – La più importante battaglia navale del Medioevo fu anche un evento-simbolo perché nell’immaginario collettivo appare come un punto di svolta nella storia delle Repubbliche marinare, in particolare di quella pisana.
Fu davvero così? A questi ed altri interrogativi risponde il medievista Antonio Musarra nel suo libro 1284. La battaglia della Meloria (Laterza 2018): un saggio di ampio respiro che esamina lo scenario mediterraneo e compie un approfondito esame di cosa volesse dire combattere sul mare, quali erano le imbarcazioni, come venivano reclutati gli equipaggi, qual era la vita di bordo a cominciare dall’alimentazione e quali erano le tattiche militari, con una focalizzazione sugli aspetti strategici del conflitto pisano-genovese. Un libro di spessore scientifico, dunque, ma anche una lettura affascinante perché ci fa conoscere “da vicino” il territorio delle due Repubbliche marinare e il contesto sociale e politico che aveva ripercussioni a livello nazionale ma anche in tutto il bacino del Mediterraneo.
Per ironia della sorte la sconfitta pisana alla Meloria avvenne il 6 agosto: un giorno che era considerato fausto a Pisa perché era anniversario di importanti vittorie della Repubblica marinara contro i saraceni.
Abbiamo rivolto ad Antonio Musarra alcune domande che ci aiutano a mettere a fuoco alcuni temi di fondo del libro. Proprio perché si tratta di un racconto avvincente non parleremo dei due condottieri che sono ampiamente descritti nel libro, né dello svolgimento della battaglia e delle sue conseguenze ma affronteremo altri temi.
Quali le radici dell’antagonismo tra Pisa e Genova?
La Meloria fu altro il punto d’arrivo d’un’atavica rivalità, centrata sul controllo delle principali rotte tirreniche – e, dunque, sulla necessità di garantirsi un sicuro vettovagliamento, in particolare granario, ma anche cospicue entrate daziarie dai porti sottoposti al proprio controllo –; ma anche d’una serie di rivolgimenti del quadro euro-mediterraneo – dalla caduta dell’Impero Latino di Costantinopoli, all’ascesa della potenza angioina, allo scoppio della guerra del Vespro, ai mutamenti delle principali rotte di commercio – capaci d’imprimere un’accelerazione a dinamiche in atto da tempo. Secondo le cronache, la causa scatenante del conflitto andrebbe ricercata nelle ambizioni d’un signorotto còrso: un certo Sinucello della Rocca, giunto a edificare un castello nel territorio di Bonifacio, allora possesso genovese. Alla richiesta di smantellare la costruzione, questi avrebbe chiamato in causa i Pisani, ottenendone l’appoggio incondizionato. In realtà, al centro del contendere v’erano questioni più ampie, quali la necessità di controllare, più che la Corsica meridionale, la Sardegna stessa e, con essa, le più ampie rotte mediterranee.
Città con porto e città-porto. Lei descrive i due sistemi portuali di Pisa e di Genova. Quali le maggiori differenze?
Si tratta di elementi strutturali importanti se davvero si vuole capire la Meloria senza fermarsi ai soli dati evenemenziali. Se Genova possiede chiaramente i caratteri della “città-porto”, Pisa, invece, benché dotata d’un più che rispettabile sistema portuale, è, piuttosto, una “città con porto”. A Genova, la compenetrazione tra le strutture portuali e la crescita del manufatto urbano – con i fondaci e le volte che s’insinuano in profondità nell’abitato, e gli approdi legati a singoli casati – è qualcosa di profondo e tipizzante. È il mare a modellare la città. Pisa, invece, è una città fluviale, dotata sì d’un avamporto lungo l’Arno e d’un porto marittimo vero e proprio – Porto Pisano, situato nei pressi dell’attuale Fortezza Vecchia di Livorno –, ma sviluppatasi autonomamente, senza che il tessuto urbano ne fosse sagomato. La darsena, collocata nei pressi della chiesa di san Nicola, fungeva sì da luogo di carico e di scarico delle merci, senza incidere, però, sulla crescita e la strutturazione dell’abitato. Con ciò, non voglio, certo, dire che le mancassero i caratteri della città di mare. Tutt’altro. A renderla tale erano, oltre agli arsenali, le strutture commerciali, legate al trasporto marittimo, e la collocazione all’interno delle mura di funzioni, quali quella doganale, tipicamente portuali. Tuttavia, le differenze tra le due città sussistevano eccome, ed erano eclatanti. A partire da queste differenze è possibile spiegare parte dell’andamento del conflitto.
Cosa significa che quello di Pisa era un “porto di catena”?
È così che la descrive il Compasso de navegare, una delle più antiche guide di navigazione giunta ai nostri giorni, redatta verso la metà del Duecento, secondo il quale: «Porto Piçano è porto de catena». Il porto di Pisa è fortificato, sbarrato da una pesante catena – come ad Acri, in Terrasanta; come sul Corno d’Oro –, insidiato dalle secche e, pertanto, necessitante di costanti opere manutentive. Per giunta, soggetto a insabbiamento a causa degli apporti torbidi dell’Arno e dei canali contigui. Ciò che costringeva a mantenere la foce costantemente libera dai detriti, così da permettere alle galee – e, in generale, alle imbarcazioni di basso pescaggio – di guadagnare la città.Anche Genova doveva lottare con gli apporti torbidi dei propri torrenti. Ma viveva una situazione diversa.
La rivalità si esercitava in buona parte nel Mediterraneo orientale. Dove?
La rivalità tra Genova e Pisa riguardava, innanzitutto, il Tirreno: il giardino di casa di entrambe; ma si estendeva a ogni angolo del Mediterraneo attraverso lo strumento della guerra di corsa. In particolare, il Mediterraneo orientale vide Genova, Pisa e Venezia scontrarsi per il controllo commerciale del litorale crociato. In particolare ad Acri, la capitale del regno latino di Gerusalemme. Gli interessi erano prettamente economici tanto che si è voluto vedere in questo primo conflitto che vide coinvolte tutte e tre le principali città marinare del tempo, scoppiato nel 1256-1257, una sorta di “guerra coloniale”. In realtà, non è possibile applicare categorie odierne a uno scontro che possedeva sì motivazioni similari ma che si giocava su piani diversi da quelli del “colonialismo” otto-novecentesco. Certo, non è un caso se le colpe d’un evento parallelo alla guerra in corso tra Pisa e Genova – la caduta di Acri, nel 1291 – sia stato legato dai contemporanei a quanto contemporaneamente accadeva in Occidente.
Lei scrive nel suo libro che da questa battaglia la stessa guerra navale ne uscì rinnovata. Perché?
Alla Meloria si scontrarono due opposte concezioni della guerra navale: maggiormente legata alle tecniche della guerra di terraferma, quella pisana, che prevedeva l’uso di galee corazzate – dunque, più lente negli spostamenti – e di arcieri, invece che di balestrieri; decisamente più innovativa, caratterizzata da rapidità di manovra, quella genovese (basata, forse, sulla maggiore esperienza dei suoi ammiragli), che prevedeva l’uso di balestrieri, i cui verrettoni risultavano ben più micidiali delle frecce nemiche. Oltre a ciò, pare che i Genovesi vestissero alla leggera; a differenza dei Pisani, avvolti in pesanti corazze di cuoio che ne rendevano difficili gli spostamenti. La lunga attesa che precedette lo scontro risultò fatale. I Pisani uscirono dal porto dopo il mezzogiorno, dopo essere rimasti per ore sotto il sole agostano, armati pesantemente; e ciò, a differenza dei Genovesi, che – secondo la Cronaca del Templare di Tiro – «tutto il giorno restarono senza armi, freschi e riposati». Oltre a ciò, è proprio in questo periodo che le galee genovesi iniziano a imbarcare equipaggi più numerosi mediante l’introduzione del terzo uomo per banco, che permette al legno di guadagnare in velocità. Insomma: ci troviamo al crocevia d’una serie di mutamenti: sia nel naviglio, sia nell’affermazione di tecniche di guerra maggiormente efficienti, che ho cercato di descrivere nel libro, le quali influenzeranno i conflitti successivi sino alla nuova, grande innovazione: l’introduzione delle armi da fuoco.
Quanto dipese la sconfitta alla Meloria sul riposizionarsi di Pisa verso terra in attività bancarie e mercantili?
In passato si tendeva ad attribuire agli esiti infausti della battaglia un mutamento strutturale dell’economia pisana, costituito dall’abbandono generale della navigazione in favore d’un ripiegamento verso le attività di terra. Ora, se la reale consistenza di tale mutamento è ancora dibattuta, certamente non è più possibile attribuirne le cause alla Meloria. Semmai, a dinamiche complesse e di lungo periodo, innestantesi su molteplici fattori. Penso, ad esempio, al rapporto con gli altri agglomerati urbani dell’interno – in particolare, con Firenze e Lucca –, alla predilezione per determinate tipologie di merci, ma anche alla progressiva assunzione da parte di alcune società di mercato, generalmente a base familiare, di formule “aziendali”. In effetti, il fatto nuovo nell’economia pisana due-trecentesca è costituito dal sorgere di compagnie bancarie e mercantili dal sapore squisitamente fiorentino, dotate di basi e postazioni in tutto il Mediterraneo, capaci di garantire alla città una discreta vivacità economica per buona parte del Trecento. E oltre, nonostante la conquista fiorentina del 1406.
Come si possono sintetizzare le conseguenze della Meloria per Pisa?
Le conseguenze immediate furono innanzitutto politiche. Pisa, così come Genova, subì una serie di repentini cambi di governo. I lunghi anni di guerra ebbero effetti importanti sull’assetto politico e istituzionale, con l’affermarsi di chiari tentativi d’affermazione personale; a mio avviso, strettamente legati allo stato emergenziale dovuto alla guerra e, dunque, alla necessità di concentrare il potere in poche mani. Senza dubbio, la Meloria non segnò l’arretramento definitivo della presenza pisana sul mare. I Genovesi dimostrarono la propria superiorità navale, vincendo la guerra e la battaglia. E ciò a causa della maggiore esperienza dei propri ammiragli, di cui Benedetto Zaccaria rappresentava l’esempio più fulgido; ma anche del più avanzato affinamento dell’arte marinaresca. Pisa, tuttavia, mantenne una certa capacità di sviluppare una micidiale guerra di corsa. Nonostante la crisi demografica dovuta alle migliaia di prigionieri reclusi nelle carceri genovesi, si rialzò in fretta, sfruttando il novello impegno genovese contro Venezia, che avrebbe occupato buona parte degli anni Novanta del Duecento. La Meloria, a ogni modo, fu un fatto grave. Ma i traffici ripresero. I Pisani seguitarono a guardare alla Sicilia, al Maghreb e a mantenersi in Sardegna, nonostante l’investitura del Regnum Sardinie et Corsice a Giacomo II d’Aragona, occorsa tra il 1295 e il 1297, promossa da papa Bonifacio VIII. Semmai sarebbe stata la successiva perdita dell’isola, tra il 1324 e il 1326, a segnarne la decadenza come potenza mediterranea e a spingerla a guardare verso l’interno.
Foto: Navi pisane bassorilievo torre di Pisa