L’ effetto Trieste, città interiore dei grandi letterati del Novecento

Per Chateaubriand è «l’ultimo respiro della civiltà» minacciata dalla «barbarie»

Per presentare la giornalista gallese Jan Morris, scomparsa nel 2020, niente di meglio delle parole che le dedica il suo collega triestino Mauro Covacich ne La città interiore (La nave di Teseo, 2017): «L’autrice, molto nota nel mondo anglosassone per i suoi travelogue (è stata anche corrispondente del Times), arriva a Trieste nel 1945 con il primo contingente inglese nei panni del capitano James Morris, uomo. Scrive a lungo nella versione maschile. Firma i suoi libri col nome di James fino al 1972» quando assume l’identità femminile di Jan, con tutto ciò che comporta visto che, tra l’altro, era anche sposato-a e ‘padre’ di cinque figli. Covacich assume il suo caso come paradigma di una città incline a cambiare i connotati: «Non è facile dire quanto possa aver influito Trieste nelle sue scelte, ma certo la scrittrice coglie proprio nell’indeterminatezza la caratteristica principale della città: nell’indeterminatezza, ovvero nell’oscillazione di un’identità volta a volta iperborea e mediterranea, ma anche asburgica, italiana, slava, greca e profondamente ebraica, o forse proprio nella fluttuante simultaneità di ognuna di esse».

Nel suo Trieste and the meaning of nowhere, pubblicato in Italia nel 2001 per i tipi de il Saggiatore con il titolo di Trieste o del nessun luogo, l’autrice mostra in effetti di avere con la città un feeling assai particolare: «Ci sono momenti nella mia vita in cui si fa strada nella mia coscienza un’evocazione di Trieste talmente nitida che, dovunque mi trovi, mi sento trasportata lì. La sensazione è molto simile a quei misteriosi momenti che a volte interrompono una normale conversazione e che, si dice, segnalano il passaggio di un angelo». In quei momenti dice di avvertire «un languore non meglio precisato, che i gallesi chiamano hiraeth», che «si esprime in un sentimento dolce e amaro e in uno struggimento per qualcosa che non sapremmo definire»: è il cosiddetto «effetto Trieste».  «È come se fossi stata trasportata fuori dal tempo, nel nessun luogo, per cogliere una visione fugace e pregnante». Lo statuto anomalo della città viene definito con formule assai suggestive: come «allegoria laica del limbo» o «luogo in cui si può andare alla deriva pensando ad altro». «Persino la stessa collocazione geografica contribuisce a destare questa impressione. Pare che si trovi sempre su una piega della carta geografica, inaccessibile e remota».

Il libro di Morris non è classificabile come libro di viaggio o di storia, né come memoria o elegia, ma è tutte queste cose insieme. In effetti anche gli appuntamenti di Trieste con la storia vengono evocati in un clima di evanescente suggestione: ad esempio il corteo funebre dell’arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, assassinati a Sarajevo, le cui bare sbarcarono a Trieste dalla corazzata Viribus Unitis prima di intraprendere il viaggio in treno verso Vienna. Fu in quella circostanza, secondo Morris, in cui la città cominciò ad essere giudicata e forse anche a sentirsi, triste, anche se «già molto tempo prima la melanconia aveva trovato qui un suo peculiare modello» nel castello di Miramare, voluto da Massimiliano d’Asburgo, «un luogo in cui il nume tutelare è il rimpianto».

All’origine della malinconia vi è pure, secondo la Morris, l’altopiano del Carso, una sorta di «cicatrice» nel paesaggio cittadino: «La sua presenza è parte della coscienza civica, forse è addirittura all’origine della melanconia del luogo, perché il Carso arido e pietroso era lì ben prima degli illiri, prima dei romani, o degli austriaci o degli italiani: su un lato il mare meditabondo, sull’altro il cipiglio severo del Carso». L’altopiano del Carso incombe, non solo su Trieste, ma sull’intera penisola, con il ricordo degli innumerevoli caduti della prima guerra mondiale, a cui vanno aggiunte le vittime trucidate dai partigiani di Tito e gettate nella vicina foiba di Basovizza, dichiarata nel 1992 monumento nazionale. Furono degli archeologi a scoprire negli anni settanta «circa a metà del baratro […] una massa inestricabile di corpi umani, uomini e donne, alcuni legati insieme. […] alcuni di loro, ancora vivi, vennero ammanettati ai morti».

Un’altra data emblematica nella storia della città è il 1954, quando il Governo Militare Alleato cedette l’amministrazione civile all’Italia e «quel porto di mare affranto e confuso ricevette la sua sistemazione e Trieste diventò quello che è sempre rimasta da allora: un’anomalia geografica e storica, italiana per sovranità ma più o meno sola per temperamento». Ci sono, tra le altre cose, i cognomi ad illustrare l’anomala condizione della città, «crogiolo di razze e di classi»: cognomi che, come ricorda anche Claudio Magris in Microcosmi e come testimonia, in carne ed ossa, Mauro Covacich ne La città interiore, hanno subito a seconda delle circostanze politiche, diversi ‘aggiornamenti’. Così, nel suo primo soggiorno a Trieste, davanti alla «enigmatica varietà di cognomi» che figurano nel monumento ai caduti situato nel colle di San Giusto, Morris si «era arrovellato su quella lapide che dichiarava di onorare i morti della prima guerra mondiale senza spiegare per quale paese avessero sacrificato la vita».

Tra gli illustri visitatori della città, si citano  François-René de Chateaubriand che la definì «l’ultimo respiro della civiltà» minacciata dalla «barbarie» dei Balcani; Henri Beyle (Stendhal) che fu console francese nel 1830; Sigmund Freud che vi soggiornò nel 1876, con una borsa di studio concessagli per studiare il sesso delle anguille ma senza risultati di rilievo, per cui  «dovette tornarsene a Vienna a mani vuote, per così dire, ma forse ispirato a riflettere più rigorosamente sul complesso di castrazione»; Rainer Maria Rilke  «che trasse ispirazione da una giornata di bora del 1912, per comporre alcune tra le più apprezzate elegie moderne». L’ammiratore straniero più entusiasta fu comunque James Joyce: «ho l’impressione che, per alcuni versi, Joyce e Trieste fossero fatti l’uno per l’altra».  Dello scrittore irlandese si ricorda anche l’effetto benefico da lui avuto sulla letteratura italiana del Novecento: «leggendo un manoscritto del giovane e timido imprenditore che usava firmarsi Italo Svevo, vi riconobbe immediatamente l’opera di un suo compagno d’arte, pure lui relegato in quel luogo di metaforico esilio, pure lui confinato tra impiegati e contabili».    

«Questo libro dunque –afferma la scrittrice nell’epilogo- è per gran parte un’autodescrizione. Ho scritto di esuli a Trieste, ma anch’io mi sono sentita quasi sempre esule. Per anni mi sono sentita esiliata dalla normalità e ora mi sento come uno di quegli esuli del tempo. Il passato è un paese straniero, e lo stesso vale per la vecchiaia, e quando vi entri hai la sensazione di attraversare un territorio sconosciuto, lasciandoti dietro il tuo paese».

Tanto per rimanere in tema di esilio, La città interiore, di Mauro Covacich (finalista al Premio Campiello del 2017) debutta con un esergo del sudafricano William Kentridge che lascia il lettore senza fiato: «La nostalgia è non avere patria nel tempo». La frase introduce i frequenti interrogativi che l’autore semina qua e là con apparente nonchalance: «Se sono italiano, perché mi chiamo Covacich?». Oppure, quando di fronte alla ‘vulgata’ triestina che gli viene propinata sin da bambino, secondo la quale «Taliani sono i meridionali, ma anche i veneti o i milanesi, in fondo taliani sono tutti coloro che stanno a ovest di Monfalcone», il piccolo Covacich si chiede giustamente: «Ma se taliani xe lori, noi chi semo?». Tali affermazioni  suggeriscono appunto una dimensione di ‘non appartenenza’ in cui vivono gli «italiani sbagliati», come si era auto-definito lo scrittore di origine istriana Pier Antonio Quarantotti Gambini.

In un libro precedente, Trieste sottosopra (Laterza, 2006) Covacich aveva cercato di offrire una versione ‘alla buona’ dell’identità triestina: «Per essere più chiaro, i triestini ai mondiali fanno il tifo per gli azzurri e si commuovono quando sentono la fanfara dei bersaglieri, ma sanno, magari in modo inconscio, che la loro storia è molto più complessa di quello che dice la loro carta d’identità. Sanno che basta andare indietro di tre-quattro generazioni per scoprirsi greci, austriaci, sloveni, croati, ungheresi. Sanno che questa città è stata teresiana, napoleonica, austroungarica, fascista, per un attimo anche titina, e poi, per un bel po’, americana. Sanno che l’elenco telefonico è tutto pieno di Bevilacqua che si chiamavano Vodopivec [vedi l’epopea degli «slittamenti onomastici» già citata da Jan Morris e Claudio Magris], di Giannelli che si chiamavano Janesich […] e che essere italiani a Trieste significa anche non dimenticare tutto questo». Questo di Covacich, lo si può definire un vertiginoso romanzo di formazione (autobiografica) a ritroso, che attraversa varie generazioni della sua famiglia con il loro relativo contesto storico, diverse frontiere geografiche (Istria, Bosnia, Croazia, Slovenia, ecc.) e naturalmente la letteratura (Svevo, Slataper, Quarantotti Gambini, Saba, Tomizza, Magris, Pahor, ecc.).

E attraversa, anzi per meglio dire, sconfina, nel territorio della finzione, costruendo sequenze deliziose: il nonno «comunista autodidatta» interrogato nel quartier generale degli alleati proprio dal capitano James Morris, mentre fuori attendono incuriositi «gli amici jugoslavi corsi a occupare la città per liberarla meglio»; il primo incontro, in una balera, fra i genitori, giovanissimi, con lui che per fare colpo su quella bella istriana esibisce un pacchetto di Astor, le «sigarette della domenica»; inoltre James Joyce in un sordido postribolo triestino («Dai Giacomin, fame veder de cos’che te son bon»), ecc. Naturalmente è la memoria, autentica e tenace, ad avere la meglio come nella bellissima inquadratura di nonna Lisa, venuta dal Sud, che dà una mano all’economia familiare facendo la parrucchiera, affacciata alla finestra con la sigaretta fra le dita, dopo una giornata di lavoro trascorsa fra tinture e permanenti, mentre scruta dall’alto quello strano mondo dove imperversa la bora: «Lei alla finestra, che guarda allontanarsi l’ultima cliente della giornata, le ciocche ancora turgide di lacca sotto il fazzoletto o scoppia in una risata perché un vicino, appena sceso dall’autobus, è finito a gambe levate per una raffica di bora. Lei che fissa il vetro, silenziosa, impassibile, per intere sigarette, e dentro la sua faccia riflessa vede Napoli, la città mito, con la chiacchierata al Gambrinus, la sfogliatella da Scaturchio, lo struscio in via Toledo e tutto il resto della vita che non ha avuto». C’è nel gesto di nonna Lisa la stessa poetica del languore, anche nella versione gallese di hiraeth, che – mi si consenta la citazione cinematografica- sprigiona la sigaretta di Serge Reggiani nel film del regista finlandese Aki Kaurismäki, I hired a contract killer (Ho affittato un killer).

La città interiore è percorsa dall’autore ad un ritmo vertiginoso che non dà tregua, con continue accelerazioni e dietrofront e quando meno te l’aspetti, con anticipazioni che riguardano, guarda caso (ma siamo in territorio freudiano) la morte del padre («un quarantaseienne con i giorni contati»), c’è dicevo la memoria della cultura triestina, in un affresco dove appaiono personaggi indimenticabili. Eccone un campionario: Antonio Bibalo, musicista con un incredibile percorso biografico, sconosciuto in Italia ma che ha avuto la sua consacrazione in Norvegia dove è considerato l’uomo che ha rinnovato la musica scandinava. Mette in musica un racconto di Henry Miller, Il sorriso ai piedi della scala che verrà rappresentato con grande successo, il 6 aprile 1965, allo Staatsoper di Amburgo, uno dei palcoscenici più prestigiosi del mondo.

C’è l’incontro, nell’agosto del 1920, fra Umberto Saba ed Italo Svevo: «I due si si imbattono per caso e si fermano a parlare, ma subito le chiacchiere precipitano in una discussione accesa. Nella versione raccolta da Quarantotti Gambini (Il poeta innamorato: ricordi), il poeta resta annichilito dall’impeto con cui lo investe lo scrittore, un accesso d’ira del tutto imprevisto. «Cossa la vol savèr lei» grida Svevo, «che in afari la xe apena un pulisìn! Che mi se voio posso far cussì e cussì». Ed ancora l’episodio che vede Quarantotti Gambini piantonare con i suoi due metri e passa d’altezza, nell’ottobre del 1941, la libreria di Umberto Saba minacciata dalle squadracce fasciste.

Sempre Quarantotti Gambini, «antifascista antislavo, ovvero antifascista anticomunista», è responsabile di uno scontro unilaterale, visto che l’altro si limita solo ad ascoltare, con il poeta comunista Paul Eluard che appoggiava i partigiani iugoslavi. C’è poi l’emotivo pellegrinaggio alla tomba dello scrittore di origine istriana, profugo a Trieste dopo l’annessione alla Iugoslavia, Fulvio Tomizza, a Giurizzani (oggi in Croazia) nei pressi di Materada, toponimo che dà il titolo al suo primo romanzo. La tomba di Tomizza è un inno simbolico al plurilinguismo di quella zona, con le iscrizioni funebri («Passò a miglior vita», ecc.) nelle tre lingue del posto, italiano, croato e sloveno. Da citare ancora l’incontro con lo scrittore sudafricano e premio Nobel nel 2003, John Maxwell Coetzee che apre il suo saggio Lavori di scavo (Einaudi 2006) con un capitolo dedicato a Italo Svevo di cui si dichiara fervente ammiratore. Svevo ha un altro ammiratore insospettato nell’artista, pure lui sudafricano, William Kentridge (a cui si deve lo splendido esergo già citato) che è autore di una performance intitolata Confessions of Zeno, un oratorio d’ombre a base di canto, recitazione, quartetto d’archi, video e sagome di marionette che si ispira al romanzo di Svevo (i disegni sono attualmente esposti al Moma di New York).

La scrittura vertiginosa di Covacich raggiunge il suo apice nel ricordare le innumerevoli ferite che la storia ha inflitto alla sua città. Quella, ad esempio, del 5 aprile 1945 di cui fu vittima il giovane Pino Robusti che proprio durante l’ingiusta prigionia decise, lui che non lo era, di morire da partigiano nella risiera di San Sabba dove i nazisti si macchiarono di crimini orrendi. La scia del terrore continua al di là dei confini con la morte dello scrittore e partigiano croato Ivan Goran Kovačić trucidato in Bosnia dai cetnici, i nazionalisti serbi. Accanto al suo cadavere furono trovati i fogli sparsi di un poema sorprendente, intitolato Jama la cui prima edizione vide la luce proprio in Italia, nel 1944, con il titolo di Fossa (Edizioni San Marco dei Giustiniani) che Covacich aggiorna in quello, ahimè, più pertinente, di Foiba. Si tratta di 63 sestine narrative che descrivono un’esecuzione in massa compiuta dagli ustascia, i fascisti croati alleati dei nazisti. «Corpi umani –racconta Covacich- cuciti l’un l’altro col fil di ferro e gettati nella fossa che hanno scavato da vivi». L’interesse dello scrittore per il poeta croato è motivato dal sospetto, infondato, di una possibile omonimia: «Una K diventata una C. All’inizio, devo ammetterlo, l’interesse per Ivan Goran Kovačić sta tutto nel viaggio tra queste due lettere, la microvariazione di un’omonimia […]».

Così, si mette un’altra volta in viaggio per cercare la tomba del poeta ma l’epoca non è la più propizia: è il 1995 e da quelle parti comincia a tirare una brutta aria, per cui meglio rinunciare e far ritorno a Trieste.

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