Jobs Act, Sant’Anna: decollo stentato, manca una politica industriale

Pisa – Uno studio dell’istituto di economia del Sant’Anna di Pisa ha messo il Jobs Act sotto i riflettori  e la sentenza, nonostante l’impennata di assunzioni a tempo indeterminato registrata negli ultimi due mesi dell’anno, non è positiva: appena 88mila occupati in più da gennaio a ottobre 2015 e fra questi, appena 2000 a tempo indeterminato. Un magro bottino! E poi, questa legge pensata per avvantaggiare i più giovani, ha favorito solo gli “attempati”: in cifre gli over 45 a tempo indeterminato sono 132 mila in più, mentre nella fascia 15-34 sono solo 8mila.

Un giudizio duro che arriva da una fonte superqualificata, tre ricercatori dell’istituto di Pisa: Marta Fana, Dario Guarascio e Valeria Cirillo. La prestigiosa università toscana ha analizzato il Jobs act nel quadro del progetto ISIGrowth dell’Ue, di cui il Sant’Anna è capofila insieme a numerose università europee. L’idea del progetto è superare la crisi con idee innovative per l’Europa, ma è improbabile che la “sperimentazione” italiana sia fra queste. Il report dei tre ricercatori verrà presentato il 20 aprile a Pisa al Sant’Anna nel quadro di un workshop su riforme strutturali e mercato del lavoro: focus sul jobs act alla presenza dell’ILO, l’agenzia dell’Onu che si occupa di lavoro. Ne parliamo con Valeria Cirillo, ricercatrice presso il Sant’Anna.

Il Governo italiano ha identificato nel jobs act un elemento chiave della strategia anticrisi, capace di ridurre la precarietà del lavoro. Come è andata veramente?

Purtroppo il lieve incremento occupazionale osservato nei primi dieci mesi dello scorso anno ha riguardato l’occupazione a termine (83%), mentre la dinamica dei contratti a tempo indeterminato (17%) è da ricondurre soprattutto alla trasformazione di contratti esistenti piuttosto che alla creazione di nuovo impiego. Inoltre quasi la metà del tempo indeterminato (41%) è costituito da lavoratori part time. E si badi bene che addirittura per tre su cinque si tratta di part time “involontario”, non voluto, secondo le rilevazioni. In estrema sintesi si può dire che l’effetto positivo dei contratti a tempo indeterminato si è avuto solo nei primi quattro mesi dell’anno (gennaio- aprile), poi la dinamica è diventata addirittura negativa rispetto al 2014: meno 18 mila unità. E poi sono letteralmente esplosi i “voucher” (addirittura +70%) che quanto a tutela non ne garantiscono alcuna!

Quali settori hanno beneficiato maggiormente del jobs act?

Questo purtroppo è un altro nodo cruciale, oltre al mancato assorbimento di giovani e donne: il jobs act sembra aver facilitato uno spostamento dell’occupazione verso settori scarsamente qualificati (turismo, alberghiero) e in servizi a bassa intensità tecnologica. Sembra che il combinato disposto di jobs-act e decontribuzione tenda a esacerbare gli effetti della crisi nel senso di un ulteriore impoverimento della capacità produttiva del nostro Paese, già messa a dura prova dalla crisi degli ultimi anni. E questo è uno degli effetti che deve fare più riflettere

Insomma sono state ridotte le tutele dei lavoratori, si sono trasferite risorse alle imprese ma il gap di competitività dell’industria italiana resta intatto?

Purtroppo il trasferimento di fondi dalla fiscalità generale al reddito d’impresa con contributi a pioggia, senza un impulso mirato all’innovazione certo non aiuta a recuperare la competitività d’impresa né l’erosione della base produttiva, fenomeno che ha avuto una drammatica accelerazione dopo la crisi del 2008. Quello che emerge con forza dal nostro studio è che per il nostro Paese diventa essenziale decidere “quale” occupazione si va a creare, mettendo in atto vere e proprie politiche industriali e scelte settoriali strategiche.

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