Jervis: l’individuo e la responsabilità morale e civile

Firenze – La figura di Giovanni Jervis (1933-2009) si staglia nel panorama della cultura progressista del secondo Novecento italiano non solo come uno studioso originale nel campo della psichiatria e psicologia, ma anche per la costante attenzione al ruolo che la ricerca scientifica e in generale la cultura deve avere per favorire lo sviluppo democratico della società.

Possiamo dire che Jervis sia stato una delle ultime grandi personalità di intellettuale impegnato del secolo scorso, un intellettuale di sinistra ma assolutamente non organico a schieramenti politici e tanto meno partitici. Psichiatra, fu uno degli esponenti più autorevoli del movimento psichiatrico che portò alla revisione dei concetti tradizionali di malattia mentale e all’abbattimento del sistema manicomiale italiano, con il culmine dell’approvazione della legge 180 nel maggio 1978 (la cosiddetta “legge Basaglia”, da Franco Basaglia il leader indiscusso del movimento, ma che propriamente si dovrebbe chiamare “legge Orsini”, da Bruno Orsini, il deputato democristiano che ne fu il relatore alla Camera; anche per le perplessità suscitate nello stesso Basaglia dal testo della legge approvato definitivamente).

Rispetto a quella memorabile stagione, dalla seconda metà degli anni ’60 fino a tutti gli anni ’70, e caratterizzata da un fiume di dibattiti, assemblee, ciclostilati, riviste e libri, sui rapporti tra “psicologia, psichiatria e rapporti potere” (così si intitolò un convegno dell’Istituto Gramsci nel giugno 1969 svoltosi a Roma su impulso della direzione stessa del PCI), Jervis maturò un progressivo distacco critico: l’antipsichiatria stava divenendo uno slogan ideologico, senza il dovuto approfondimento teorico e empirico sulla patologia mentale e senza proposte terapeutiche fattuali che non fossero utopiche (“liberi tutti”) a discapito anzitutto proprio di chi soffriva in prima persona per i propri disturbi mentali (una prima analisi sistematica di tutta questa problematica fu offerta da Jervis nel suo Manuale critico di psichiatria del 1975, testo che ebbe una grandissima diffusione).

Allontanatosi dalla professione di psichiatra nelle istituzioni pubbliche (prima nell’Ospedale psichiatrico di Gorizia, luogo storico della nascita del movimento antipsichiatrico, e poi a Reggio Emilia), nel 1977 Jervis cominciò a insegnare presso il corso di laurea di psicologia dell’Università “La Sapienza” di Roma. All’attività didattica Jervis affiancò un’intensa attività di ricerca teorica che fu presentata in una serie di monografie nelle quali, tra i temi tradizionali della psicologia dinamica e della psicoanalisi (affrontati in Presenza e identità, 1984; La psicoanalisi come esercizio critico, 1989; Psicologia dinamica, 2001), prendeva sempre maggiore spazio un’analisi di vasto respiro sulle condizioni psicologiche e sociali dell’individuo negli ultimi decenni del secolo scorso. Sebbene i libri di carattere più tecnico e disciplinare meritino ancora di essere letti e studiati, sono queste ultime opere che risaltano per l’attualità delle riflessioni proposte.

È quindi lodevole l’iniziativa di Edizioni thedotcompany (Reggio Emilia) di ristampare, in una versione accuratamente rivista e integrata, due libri fondamentali di Jervis: La conquista dell’identità. Essere se stessi, esseri diversi (2020, introduzione di M. Marraffa, postfazione di G. Corbellini) e Individualismo, responsabilità e cooperazione. Psicologia e politica (2021, a cura di M. Marraffa). L’individuo o l’identità individuale, sempre richiamata da Jervis anche nei titoli dei suoi scritti più antichi, non è tanto il tema centrale per la costituzione di una scienza psicologica dell’essere umano (così come è accaduto per gran parte delle teorie fiorite lungo la storia della psicologia moderna), quanto è l’area di incontro e integrazione tra la psicologia e la politica o meglio tra la dimensione dell’individuo e la sua dimensione politica nell’accezione originaria (“L’uomo è un animale politico”, l’essere umano è tale perché vive nella polis, affermò Aristotele).

Questo terreno comune è affrontato in modo particolare in Individualismo, responsabilità e cooperazione. Se l’individuo è un cittadino, allora nella sua organizzazione psicologica non vi sono solo astratte funzioni mentali, ma vi sono anche vincoli strutturali di ordine sociale che legano indissolubilmente la mente, la coscienza, l’individuo ai nodi (“gli altri”) della rete sociale entro la quale questo stesso individuo opera. Se l’Io cartesiano era una entità astratta, distaccata dal resto del mondo sociale (questa concezione era stata comune a gran parte della psicologia tra Ottocento e Novecento, a cominciare dalla psicoanalisi), la moderna biologia evoluzionistica – cui Jervis si richiama esplicitamente – ha individuato in varie specie animali alcuni meccanismi genetici che assicurano il rapporto tra i conspecifici ai fini non solo della sopravvivenza di un singolo individuo, ma dell’intera specie.

Questi meccanismi primari si manifestano nella specie umana sotto forme storiche e sociali diverse, ma costituiscono un fondamento comune rispetto al quale un individuo si differenzia dagli altri, caratterizzando la propria identità, la propria personalità. Jervis distingue tra due sistemi principali che orientano il comportamento umano: un sistema individuale, assertivo (su cui si fonda l’autonomia individuale, l’auto-assertività, la competizione) e un sistema interpersonale, cooperativo (su cui si fonda il “fare-insieme”, la socialità, la cooperazione).

Nella sua postfazione, un’esauriente e lucida analisi dell’evoluzione del pensiero di Jervis, Marraffa riassume così il rapporto di interdipendenza tra i due sistemi: “Da ciò emerge una concezione della natura che non è né pessimista né ottimista: gli esseri umani sono naturalmente portati alla competizione (e talora alla distruttività) ma anche a forme di socialità, di cooperazione, e perfino di altruismo. Di più: la competitività e la cooperazione vanno di pari passo. Non c’è cooperazione senza competitività e non c’è competitività senza cooperazione. Questo è un fondamento naturale del comportamento umano e naturale”.

Apparentemente questa prospettiva può risultare relativistica. Se la natura umana è stretta tra l’asserzione egoistica della propria persona e la cooperazione con gli altri, si può giustificare sia chi è proiettato su un estremo sia chi lo è su quell’opposto, come se fosse una alternativa permessa dalla duale natura biologica del comportamento umano. È a questo punto che emerge la veemente critica di Jervis al relativismo diffusosi nella società e nella cultura occidentale dopo il dissolvimento negli anni ‘80 delle ideologie che avevano dominato il Novecento. Nel libro Sopravvivere al millennio (1995) Jervis scrisse: “Non tutte le idee, in realtà sono ugualmente buone; ragioni e torti sono spesso ben rintracciabili, e non è neppure vero che tutti gli esseri umani si rivelano, ancorché dotati di uguale dignità, ugualmente stimabili.

E così, per gli stessi motivi, non tutte le società umane sono altrettanto capaci di assicurare benessere e libertà ai loro membri, né sono tutte altrettanto degne di investimenti di fiducia da parte di chi le avvicina. Scegliere è inevitabile, con tutte le incertezze che comporta”. Lungo la storia della società occidentale, Jervis vedeva una svolta radicale nell’età moderna, prima con la Riforma e poi con l’Illuminismo, quando si fondò un’idea di individuo che fosse in grado di conciliare le due dimensioni, individuale e sociale, l’individualismo e la cooperazione.

Vale a dire, un individuo capace di scegliere con piena coscienza un modello di vita psicologica e sociale tale da non mortificare la propria libertà individuale e allo stesso tempo garantire la libertà altrui. Ecco perché in quest’ultimo libro il concetto di “responsabilità” è centrale: “Il soggetto della modernità, infatti, è l’individuo psicologicamente autonomo: o meglio, è l’individuo capace di scegliersi specifiche responsabilità, di capirne il significato, di mantenervisi fedele” (p. 150). Non è una scelta facile, lo sottolinea più volte Jervis nelle pagine più intense del libro.

L’individuo può sentirsi solo, può avere paura della sua stessa libertà, ora che non è più guidato o orientato nelle sue scelte personali e sociali da un partito o da una chiesa qualunque essi siano. Ma è proprio questa “solitudine” che riporta l’individuo a una forma di socialità più evoluta e convinta. In questo percorso, di nuovo il riferimento storico è alla Riforma, per cui va tenuto presente anche quanto sia stato importante l’ambiente famigliare valdese nel quale crebbe Jervis: “Il modello di individualismo che emerge dalla Riforma protestante ha contribuito a forgiare la vita sociale della modernità. Nel protestantesimo la Chiesa è la comunità dei fedeli, non una istituzione verticale che emana dalla volontà divina. Anche per quanto concerne la vita civile, è il singolo cittadino a essere primario, non già la socialità istituzionalizzata.

La socialità, dunque, non è una realtà ‘data’ a cui il singolo si deve adattare ma, al contrario, il risultato di una convergenza consensuale di iniziative” (p. 149). Jervis volle riaffermare il significato e il valore della tradizione laica e progressista della società occidentale nata nell’Età moderna contro il relativismo culturale-scientifico e il qualunquismo socio-politico che aveva già delineato alla fine del secolo passato e all’inizio del nuovo. Quando si sente discettare su un “nuovo umanesimo”, ci mancano le osservazioni, sicuramente sferzanti, che Jervis ci avrebbe fornito come una guida rigorosa per orientarci in questo dibattito.

Luciano Mecacci

***

G.Jervis, Individualismo, responsabilità e cooperazione. Psicologia e politica (2021, a cura di M. Marraffa), Ed. thedotcompany, Reggio Emilia, pp. 388, euro 23,90.

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