Italia e disoccupazione, cosa ci chiede l’Ocse?

L’Ocse nel rapporto "Obiettivo crescita", pubblicato in occasione del G20 di Sydney, analizza le riforme strutturali realizzate dal 2012 nei Paesi industrializzati. E detta per ognuno il percorso ulteriore che andrebbe realizzato per migliorare le prestazioni di sistema.
Per l’Italia, leggendo il Rapporto, non emergono grandi novità. Si sottolinea il grave problema della disoccupazione, ben oltre il 12% della forza lavoro, e in particolare della disoccupazione giovanile, di quella meridionale e, con una particolare gravità negli ultimi anni, quella di lunga durata.
E si sottolinea che, nonostante alcune riforme avviate in tema di lavoro (la nuova indennità di disoccupazione, il nuovo ruolo dell’apprendistato, etc), in Italia c’è ancora molto da fare per avere delle regole più adatte alla nuova competizione e al nuovo modello di sviluppo nella globalizzazione.

E’ evidente, che nell’ottica di sistema che interessa gli analisti dell’Ocse, non possono restare fuori le raccomandazioni relative alla scuola e alla giustizia. Si richiede più efficienza, più efficacia e più innovazione in settori che stanno o a monte o collaterali al sistema economico in senso stretto ma che su questo hanno un impatto rilevante.
Non è certo con una scuola sempre più dequalificata e inefficiente, in una sorta di crisi depressiva continua che attanaglia sempre di più sia gli operatori che gli utenti, e con una giustizia lenta e burocratica, spesso slegata dalle esigenze di tempestività del mondo dell’impresa,  che si possono sostenere processi innovativi nell’economia.

Ma è il mondo del lavoro il centro dell’attenzione del Rapporto. E qui si ritrovano i temi ricorrenti della lettura , diciamo così liberale, degli analisti dell’Ocse.
In primo luogo occorre puntare a modificare il sostegno alle ristrutturazioni e alle crisi aziendali e settoriali puntando sempre meno sulla difesa dei “posti di lavoro” (specialmente quando questi sono “tecnicamente ed economicamente labili”) e sempre di più nel sostegno al reddito e al reimpiego dei lavoratori.  E’ un tema da tempo dibattuto nel paese che trova contrasto da una parte nella cultura sociale dei lavoratori e del sindacato e dall’altra nella oggettiva debolezza del sistema produttivo, sia settoriale che imprenditoriale, che si trova spesso ad  usare il modello “cassa integrazione”  come strumento di ristrutturazione e rilancio dell’impresa. E’ un modo improprio di fare politica industriale. Ma occorre trovarne un altro per evitare che le crisi in Italia si risolvano con il solito esito della chiusura irreversibile delle aziende. Quindi va bene il welfare sulle persone ma solo se, in un sistema industriale debole strutturalmente come quello italiano, si accompagnano nuovi strumenti, efficienti ed efficaci, di politica industriale per la crescita e lo sviluppo di nuove attività e per la ristrutturazione di quelle esistenti .

In secondo luogo occorre puntare ad una tassazione favorevole al lavoro. Con il solito problema del cuneo fiscale e della micidiale contraddizione, in Italia più elevata a causa di vaste sacche di evasione, elusione e illegalità,  che vede i lavoratori pagare aliquote più alte dei possessori di rendite finanziarie e immobiliari.

Infine l’Ocse ci riporta al vecchio problema di depotenziare al massimo, in un sistema che deve essere flessibile perché inserito nella competizione globale, i vincoli della contrattualità nazionale a favore della contrattazione locale e di impresa perché più vicine al luogo dove è possibile definire i salari in linea con la produttività aziendale.  Quindi maggiore flessibilità sia statica (i salari in linea con la produttività strutturale delle aziende) sia dinamica (i salari in linea con l’andamento della produttività delle aziende: una sorta di “wage sharing” previsto nella contrattazione).  C’è anche il solito richiamo alla eliminazione del vincolo del “salario minimo” che effettivamente in un paese dove attraverso strumenti leciti si può arrivare agevolmente  a salari di 700 euro al mese e attraverso il lavoro nero si pagano salari che non superano i 400 euro, pare più una “petizione di principio” che una vera raccomandazione di politica del lavoro.

Insomma gli analisti dell’Ocse non ci dicono niente di nuovo. Questo non significa che non ci dicano niente di importante. I tre assi di riforma suggeriti appaiono nella loro sostanza condivisibili e, una volta contestualizzati maggiormente alla realtà italiana, anche fattibili da parte di un Governo che voglia innovare.
L’unica criticità che si può rilevare nel Rapporto è la parte mancante di una vera politica di crescita e di sviluppo. E questo in particolare in un paese dove la crisi non è solo congiunturale ma affonda anche in problemi di ordine strutturale. E cioè in problemi di debolezza imprenditoriale, settoriale e territoriale.  In presenza di queste criticità strutturali del paese non si può non affiancare, per una seria  politica del lavoro, accanto ad una riforma “più liberale” del mercato del lavoro  anche una altrettanto seria politica industriale e una altrettanto seria, e duratura, politica di investimenti pubblici. Cioè l’affidamento esclusivo ad un nuovo funzionamento, più flessibile e più efficiente del mercato del lavoro, appare eccessivo per un paese come l’Italia. Occorrono altre gambe per la ripresa e per lo sviluppo. E questo non è per compensare con un qualche “mito” di sinistra l’eventuale riforma liberale del mercato del lavoro. Cioè una sorta di riequilibrio delle parole che serve a far digerire la pillola della riforma. Ma piuttosto per inserire quella necessaria riforma in un sistema come quello italiano dove non basta solo allocare meglio le risorse ma dove queste vanno spesso create dal nulla o rigenerate per consentire uno sviluppo duraturo a livello di piena occupazione.

Mauro Grassi

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