La vittoria di Donald Trump apre un nuovo scenario per il Medio Oriente. E c’è chi pensa che siamo prossimi all’ennesimo disastro. Di sicuro, in queste ore, non fa parte della schiera dei pessimisti il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Che si è affrettato a congratularsi “per il più grande ritorno della storia!”.
Tra i due leader i rapporti sono stati idilliaci a lungo, poi Bibi Netanyahu è salito sul carro di Biden con una tale velocità da far infuriare il tycoon americano. E sono volate tra loro parole grosse. Per riallacciare le relazioni in estate Netanyahu si è dovuto recare non a Canossa ma mestamente prostrarsi a Mar-a-Lago. Ricevendo il perdono. Adesso però deve stare attento per almeno due ragioni.
La prima, sono le inclinazioni isolazioniste del prossimo inquilino della Casa Bianca. Che non nasconde di non prediligere un coinvolgimento diretto nella guerra, e punta a tagliare i fondi ai finanziamenti militari agli alleati. L’era degli aiuti a pioggia di Biden è storia passata. Lo dimostra il fatto che Trump ha espressamente chiesto a Netanyahu di finire il lavoro iniziato e porre fine al conflitto sia a Gaza che in Libano il più rapidamente possibile, ovvero prima di entrare in carica nel gennaio 2025. Comunque, l’obiettivo non è categorico, ma la scadenza della richiesta è prossima. Talmente ravvicinata che non pare coincidere con la tempistica scelta da Bibi per continuare la campagna militare e nello stesso tempo assestare il consenso popolare.
Il secondo elemento che il falco del Likud deve tenere in considerazione è il costo politico (non quello economico) della normalizzazione con i sauditi, portando dentro al pacchetto degli Accordi di Abramo, tracciati da Trump e mai messi in discussione dai democratici, quei paesi arabi che ancora manca all’appello. Trump potrebbe far sentire tutto il suo peso ed imporre ad Israele di accettare qualsiasi offerta gli venga fatta. Ma se il piatto fosse troppo alto ad incrinarsi sarebbe la maggioranza che sostiene Netanyahu. Il quale intanto ha anticipato i risultati elettorali statunitensi giocando sul cono d’ombra per colpire gli avversari interni. Il rimpasto di governo è perfettamente in linea con il suo piano di stabilire una democrazia più autoritaria e meno liberale.
Il defenestramento del ministro della Difesa Gallant ad urne aperte, seppure aleggiava da tempo e fosse stato congelato 18 mesi fa, è avvenuto nel momento più opportuno per Netanyahu, quando il generale ribelle si è trovato allo scoperto, venendo meno la protezione di cui godeva a Washington. Nella lettera di licenziamento, con effetto entro le 48 ore, Bibi ha fatto sapere che il rapporto di fiducia era terminato visto che Gallant remava contro. Le tensioni sono andate crescendo tanto sulla riforma della giustizia quanto sulla gestione della guerra e sul dilemma della liberazione degli ostaggi. Per deflagrare proprio nella giornata di martedì sulla questione delle sovvenzioni sanitarie agli ultraortodossi, che non prestano il servizio militare.
La proposta di legge presentata dal partito di riferimento della comunità ashkenazita United Torah Judaism per preservare i servizi medici a carico dello stato ai reticenti religiosi alla leva ha trovato un muro, una vera e propria alzata di scudi che ha spaccato il Likud e l’estrema destra nazionalista. Mettendo momentaneamente in minoranza l’attuale esecutivo. Placare i religiosi sarà gioco facile per Bibi, che vedrete li metterà in riga, a modo suo.
Cosa che non gli è riuscita con la mina vagante Gallant: “Tutti devono servire nell’IDF e partecipare alla missione di difendere Israele … il problema non è solo sociale, ma è un argomento centrale per la nostra esistenza”. Il giudizio dell’ex capo delle forze armate suonava come una sfida. Che Bibi ha raccolto. Il prossimo passo del signore della destra è spianare le resistenze e chiudere il cerchio, rimuovendo gli ultimi ostacoli: procuratore generale, magistratura, vertici dei servizi segreti e dell’esercito. Manovre per le quali deve aver ricevuto da Trump ampie rassicurazioni di mano libera.
D’altronde lo stesso Trump ha promesso repressione delle libertà civili. Nel mirino una sfilza di “nemici”, dal movimento per i diritti dei palestinesi a quello LGBTQ+. La domanda quasi spontanea è come la futura amministrazione Trump approccerà il nodo Iran e il tema Palestina. Nel primo mandato, Trump è diventato il primo presidente degli Stati Uniti ad autorizzare l’annessione israeliana della Cisgiordania, a riconoscere quella delle alture del Golan e a spostare l’ambasciata degli Stati Uniti da Tel Aviv a Gerusalemme. Quale sarà il prossimo regalo a Bibi? Teheran, Ramallah o Gaza?
Alfredo De Girolamo Enrico Catassi