Pisa – In epoca di pandemia e vaccini Israele torna alle urne per trovare il bandolo di una matassa dai fili aggrovigliati e consumati. Quanto il paese è sempre più vicino all’immunità di gregge, tanto il quadro politico attuale è ingarbugliato. Assomigliando sempre più ad una maionese impazzita.
Chi dovesse recuperarla, salvando la ricetta, potrà tentare di guidare un paese che oggi pare ingovernabile. E con la prospettiva, nemmeno troppo assurda, che dalle schede esca ancora un nulla di fatto. Aprendo la strada, per la quinta volta dal 2019, al voto.
“Israele rischia di aver preso troppo sul serio la didascalia che ne fa l’unica democrazia del Medio Oriente. Se l’elezione parlamentare è la prova suprema della democrazia, noi in Israele ne facciamo tre o quattro all’anno, così, in scioltezza”. È il commento tagliente ed ironico del demografo di fama mondiale Sergio Della Pergola.
Il prolungato caos parlamentare è oggettivamente legato a vari fattori, uno di questi è la legge elettorale vigente: proporzionale puro con soglia di sbarramento al 3,25%. Che elegge 120 parlamentari, 61 i seggi che determinano una maggioranza. Spiega della Pergola: “Il sistema dei partiti è composto da almeno quattro diverse tribù politiche, il che implica la necessità di formare governi di coalizione”.
Grosso modo nel panorama della Knesset sono riconoscibili, anche se frammentate al loro interno, un’area di destra nazional-religiosa, un polo laico-liberale e progressista, i religiosi ortodossi e la casa dei cittadini arabi. Per avere la certezza della stabilità almeno due di queste famiglie dovrebbero accettare una piattaforma condivisa.
Mercoledì prossimo, a spoglio delle schede in corso, capiremo meglio quale chiaro di luna si prospetta in Israele. Intanto, supponiamo che nel corso della mattina di mercoledì Netanyahu abbia ottenuto insieme agli alleati il quorum per dare vita ad un governo, in questo caso la vittoria sarebbe schiacciante, e definitiva. Al momento resta un opzione ma è sicuramente la meno accreditata.
Più probabile invece che per decidere le sorti della carriera del “falco” della destra si debba passare attraverso l’allargamento del sostegno, ricercando voti utili in parlamento. Due sentieri sembrerebbero essere praticabili dal premier israeliano nella fase post voto. Imbarcare l’estrema destra di Naftali Bennett, per molti versi affine ideologicamente. Oppure, invitare al tavolo il partito degli islamisti arabi. Un mezzo miracolo per un patto storico, che tuttavia andrebbe a ricalcare sul piano nazionale il successo ottenuto dal modello lanciato da Trump con gli “Accordi di Abramo”, tra Israele e il mondo arabo.
Mentre sono in molti a tremare all’idea di un Netanyahu in versione profeta. L’alternativa a questo disegno, non biblico ma tipicamente politico, è che numeri permettendo la destra anti-Netanyahu, il centro liberale e la sinistra sionista avviino un processo di convergenza, nel nome del comune avversario. Aree e anime incompatibili sotto lo stesso tetto, con l’unica missione di detronizzare il “Re”.
Alfredo De Girolamo Enrico Catassi