Dopo sei settimane le proteste in Iran continuano. I giovani scendono per strada al grido di “Donna, vita, libertà” e di “morte al Dittatore”– o più in chiaro “morte a Khamenei”. Donna è la prima parola perché la scintilla che ha acceso la protesta è stata la morte in carcere di Mahsa Amini, una ragazza curda di 22 anni in vacanza nella capitale, arrestata dalla cosiddetta “polizia morale” perché non portava il velo secondo le regole del regime islamico. E’ la prima volta che i diritti e la dignità delle donne vengono riconosciuti in Iran come paradigma dei diritti umani e su questo si sono ritrovati tutti, studenti e operai, ricchi e poveri,come se ognuno rivangasse le ristrettezze della propria vita e chiedesse di poter vivere una vita normale, quella che viene resa impossibile da una congrega di vecchi religiosi lontani anni luce dalla realtà di questi giovani. Che ora gridano vita, reclamando una vita normale.
A dare il via alle proteste sono state giovani e giovanissime donne, ragazze e ragazzi che fino poco tempo fa sembravano del tutto indifferenti alla politica. Vivevano in un mondo proprio, come se il regime non esistesse. S’incontravano nei loro caffè dove entravano con l’aria di chi è giunto ad un porto sicuro dopo essere scampato a qualche pericolo, oppure in locali presi legalmente in affitto per proiettare film o metter su spettacoli teatrali , nulla di particolarmente politico, o che prendesse di mira il regime, piuttosto Shakespeare, Cechov, Beckett, come in altri teatri del mondo.
Il regime non s’intrometteva, come se ci fosse un patto non scritto tra i governanti e i giovani: voi non v’immischiate nella politica e noi non vi diamo tanto fastidio quanto potremmo. Ma di recente il nuovo presidente ultraconservatore Ebraihim Raisi (soprattutto per accreditarsi con i vecchi ayatollah di Qom come futuro erede di Khamenei quando questi uscirà di scena) ha dato un giro di vite ai codici di comportamento e di vestiario che per la vecchia nomenclatura religiosa sono un fatto identitario – come era il muro di Berlino per regimi i comunisti. I giovani si sono accorti che non potevano più vivere nemmeno in quel loro mondo ristretto, che avrebbero potuto a qualsiasi momento venir arrestati per strada senza motivo, com’era successo a Mahsa Amini. E hanno chiesto “libertà”. Un grido a cui si sono uniti tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, si sentono sopraffatti dal regime islamico.
La novità che rende queste proteste diverse da quelle che l’hanno precedute (nel 2009, 2017 e 2019) è che vi partecipano anche coloro che finora avevano sostenuto il regime, o comunque ne dipendono economicamente. Ora gli voltano le spalle per le miserabili condizioni di vita in cui si trovano e che peggiorano ogni giorno. Sono quelle stesse masse a cui nel 1979 la rivoluzione islamica dette in tetto, un lavoro, e soprattutto la possibilità di andare a scuola. Milioni di poveri ai quali tutte queste cose erano state sempre negate nella storia dell’Iran.
Oggi, quando credevano di aver finalmente raggiunto un minimo di benessere economico, sono ripiombati nella miseria. A causa delle sanzioni imposte dall’Occidente. Ma anche a causa dell’incompetenza e della corruzione del regime, moltiplicate proprio dalle sanzioni. Mentre negli anni 80, durante la “guerra imposta” lanciata da Saddam, tutti in Iran mancavano di tutto; oggi, a fianco dei milioni diventati sempre più poveri è nata una vera e propria nuova classe di ricchi, una fetta del regime (soprattutto i pasdaran, diventati la prima potenza economica dell’Iran) i cui figli si divertono a fare sfoggio sui social di automobili e appartamenti lussuosi, università estere e vacanze a Dubai . E’ cosi che gli altri, che invece non ce la fanno a campare, si sono uniti alle proteste.
Nasce così una rivoluzione? Gli espatriati iraniani rispondono di sì, ricordano gli inizi del ’79, tutto come oggi dicono, manifestazioni, repressione, scioperi. Ma non tengono conto che il regime ha ancora molti assi nella manica. Ha le milizie, i pasdaran e i basij che colpiscono duro (270 giovani morti, un migliaio in carcere secondo Amnesty International), ha le prigioni, e soprattutto ha uomini privi di scrupoli perché lottano per la propria sopravvivenza. Potrebbe ancora usare il massimo della forza pur di piegare la rivolta.
Il regime commette però l’errore di fidarsi delle paure della gente. In passato questo funzionava. Chi protestava alla fine si fermava non solo per paura delle punizioni, ma anche di che cosa sarebbe successo dopo. Ma i giovani e ancora più i giovanissimi non hanno queste paure: non temono né la polizia né il futuro. Nei primi video che arrivavano dall’Iran si vedeva la gente scappare sotto i gas lacrimogeni, oggi si vedono ragazzi e ragazze delle scuole medie che strappano i ritratti di Khamenei e corrono incontro alla polizia incuranti del pericolo.
Come andrà a finire dipenderà anche da quanto a lungo pasdaran e basiji rimarranno fedeli al regime – nel ‘79 gli ufficiali dell’esercito dello scià passarono dalla parte degli insorti, ricordano molti iraniani all’estero. Una cosa sicura è che questa volta le fondamenta del regime sono scosse. Finora il prestigio del rahbar, del giurista supremo era sempre stato il tema tabù, di fronte al quale tutte le bocche si chiudevano. Nemmeno i dissidenti osavano criticare apertamente Khamenei. Era la linea rossa dove finiva ogni tolleranza: oltre c’erano solo le condanne a morte. In queste settimane le grida Morte a Khamenei, morte al rahbar si sono levate da tutti i quartieri, anche quelli più pii, in tutte le città iraniane. E questo non rimarrà senza conseguenze.
Foto: Mahsa Amini
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