Firenze – L’idea è stata meritoriamente concepita da «Più Europa» e dai radicali ed è esposta in una petizione indirizzata al sindaco Dario Nardella e al Comune di Firenze. La richiesta che viene formulata ha un evidente valore politico e simbolico: assegnare il «Giglio d’oro» al movimento «Donna, Vita, Libertà» come «riconoscimento al coraggio delle giovani donne e dei giovani uomini iraniani che stanno sfidando un regime autoritario e oscurantista per conquistare diritti e libertà». Viene inoltre sollecitato, il sindaco di Firenze, a far pervenire al sindaco di Esfahan, gemellata con Firenze dal 1998, la richiesta di sospensione delle condanne a morte delle attiviste e degli attivisti rinchiusi nelle carceri della città. La raccolta delle firme si è svolta in una piazza S. Ambrogio accarezzata da un clima semi-primaverile ed ha registrato una partecipazione davvero significativa.
C’erano, naturalmente, gli iraniani della comunità di Firenze (non pochi dei quali sono nostri concittadini ormai da anni), le ragazze e i ragazzi che hanno fissato davanti al portone della Chiesa lo striscione di «Donna, Vita, Libertà» (e che chiedono, con le loro iniziative, di non dimenticare il dramma del loro Paese e della loro gente), ma sono passati anche tanti fiorentini. Un’occasione, anche, per salutare, tante amiche e tanti amici. C’è una disponibilità e una sensibilità, di una parte almeno della nostra opinione pubblica, a cui le istituzioni dovrebbero, auspicabilmente, dare ascolto e fornire adeguate risposte. Firenze, è dopotutto, una città- simbolo. È città della pace e della cultura dei diritti. E la Toscana è, pur sempre, la terra che, per prima (come ricordiamo ogni 30 novembre) ha messo al bando tortura e pena di morte. Un primato che è giusto ricordare. E che ci consegna, però, anche una responsabilità. Quella di non dimenticare in quante parti del mondo, per così dire, lo spirito di Pietro Leopoldo (fatto di tolleranza e di umanità) sia ancora di là da venire.
Che ci siano prese di posizione nette da parte di Firenze e della Toscana ha, dunque, un’importanza particolare (almeno dal punto di vista morale). Gli amici iraniani lo sanno. E ci sperano, nell’appoggio del Comune e in quello della Regione. Perché su quel che sta succedendo in Iran (che già sta scivolando all’interno delle pagine dei giornali e quasi in coda ai notiziari) non cali il silenzio. Come tante volte succede per troppe tragedie del mondo. Lo si ricorda, nei capannelli che si formano nella piazza. Delle donne afghane, che ora sono definitivamente escluse dall’università, nell’ anno domini 2022 (anzi, quasi 2023, per essere precisi), chi si occupa più? E del Myanmar? E di Hong Kong? E della Siria o dello Yemen? Non ci si è quasi assuefatti, ormai, anche alla guerra dell’Ucraina (che è, certo al freddo e al buio), l’eco della quale ci arriva come una sorta di consueto rumore di fondo?
Certo, in termini generali, rispetto alla questione iraniana, qualcosa si muove. Il nostro ministro degli esteri Tajani ha convocato l’ambasciatore iraniano. Va bene. Ma non è molto rispetto a quello che, in Iran, succede. Con una brutalità che atterrisce. Ventenni impiccati e appesi, come monito, per ore, ad una gru. Migliaia di persone incarcerate in terrificanti prigioni, come quella di Evin (dove è stata rinchiusa anche Alessia Piperno). Manifestanti (anche molto giovani) picchiati e colpiti a morte. A centinaia. Eppure, le proteste non si fermano. Sono passati tre mesi dalla morte di Mahsa Amini, deceduta dopo essere stata arrestata dalla «polizia morale» perché non portava correttamente il velo. «Malore», la causa del decesso, disse la polizia. Ma in Iran nessuno ci ha creduto. «Mahsa è stata assassinata. Morta per le percosse», la voce si diffuse immediatamente nel Paese, nonostante la censura imposta dal regime agli organi di informazione.
E la rivolta è divampata. Ovunque. Le donne non vogliono più la schiavitù del velo (come si intitolava un libro di Giuliana Sgrena di una ventina di anni fa) che tale è se, il velo, lo si deve indossare non per convinzione o semplice consuetudine ma in forza di una costrizione e della legge di uno stato. Non accettano più la condizione di minorità civile, le donne iraniane. Molte di loro sono colte, evolute, libere nell’animo e non ne possono più di sentirsi soffocare sotto una coltre di imposizioni calate dall’ alto. E, insieme alla loro, va avanti la ribellione dei giovani che desiderano una vita più libera («come quella che potete fare voi, in Occidente», ti dicono).
Fin qui si è parlato di «rivolta» o di «ribellione». Ma non è così che gli iraniani definiscono quel che sta accadendo. La parola da loro usata è «rivoluzione». Di «rivoluzione», proprio in piazza S. Ambrogio, mi parlava, questa mattina, un giovane iraniano, appena rientrato in Italia dal suo Paese. «E’ una rivoluzione», mi diceva, «che non si ferma». E all’obiezione che il punto debole di questo processo sembra essere la mancanza di un’alternativa politica a livello istituzionale o di una guida riconosciuta del movimento, ha risposto semplicemente: «Non importa. Il popolo vuole il cambiamento. E questa è la volta buona». Gli ho anche chiesto della posizione dei «riformisti» (forse c’è chi ricorda il nome di Khatami), che, in passato, dall’interno, avevano cercato una via per attenuare gli aspetti più rigidi e assolutistici del regime.
La risposta, anche qui, è stata decisa: «I riformisti sono stati messi da parte. E poi, i loro discorsi sono ormai lontani dal modo di vedere le cose che ha il movimento esploso in questi mesi. Parlano di “islam aperto”. Ma le donne, i giovani non vogliono un islamismo moderato. Vogliono la democrazia. E ormai è all’ordine del giorno, più o meno apertamente, la questione della separazione fra politica e religione. Il sentimento religioso è fondamentale per la nostra gente, e va valorizzato e rispettato, ma non deve più essere usato per interferire nella politica». Certo, un Iran in cui valga il principio della laicità dello stato sarebbe davvero una rivoluzione di portata enorme. Fino a ieri sembrava impossibile. Oggi, chissà. Come si sa, i portavoce del regime dicono che tutto quello che sta avvenendo è frutto di una cospirazione straniera.
Ma non c’è cospirazione che possa spiegare la vastità di un movimento come quello che sta comunque scrivendo una pagina della storia. Quel che le donne, i giovani, i democratici iraniani ci ricordano è un principio che troppo spesso tendiamo ad obliare. Cioè che i diritti umani (quelli scritti nella Dichiarazione Universale del 1948) devono valere per tutti e che non c’è relatività delle culture (dimensione, peraltro, da valorizzare) che possa giustificare la soppressione delle libertà fondamentali e la violazione della dignità della persona. Ci sono grati, i democratici iraniani, per le attestazioni di solidarietà Ma, forse, dovremmo essere noi ad avere della gratitudine per questo fondamentale «promemoria» messo in evidenza da una battaglia democratica che non è certo solo una loro questione «domestica» e ci consegna un messaggio di valore universale.
Foto d’archivio