Nel 1943, lo straordinario scrittore di fantascienza e fantasy Ray Bradbury scrisse un racconto intitolato “La folla”, in cui il protagonista osservava come una sorta di misteriosa, inquietante congrega si facesse sempre viva sul luogo di ogni incidente; silenziosi, eppure presenti, sempre come se fossero lì in ansia per qualcosa, per nutrirsi di qualcosa, forse. Benché il racconto fosse, come nella miglior tradizione di questo autore, aperto ad una vasta gamma di interpretazioni, non c’è dubbio sulla molla che ne ha stimolato lo spunto: quello stupore misto a inquietudine misto a disgusto che ci prende quando, ogni volta che si verifica una disgrazia, osserviamo radunarsi sul posto decine di curiosi. I più guardano da lontano, alzandosi sulle punte dei piedi; poi c’è un gruppetto che si tiene discosto, lo sguardo fisso, come a formare una specie di cordone di sicurezza o a rivendicare una sorta di proprietà, un diritto di prelazione sulle spoglie, forse; infine ci sono quelli, diametralmente opposti, che si sperticano in consigli agli infortunati o dirigono i curiosi e che al contrario si allontanano dalla scena scuotendo la testa e muovendo critiche, premurandosi di fornire pareri e informazioni a quei passanti il cui sguardo riescono ad intercettare: dove andremo a finire, che disgrazia signora mia, vanno sempre troppo veloce.
E questo che abbiamo descritto possiamo stare certi che è uno scenario che si verifica, con poche variazioni, fin dall’ultima Glaciazione. Tempi nei quali però al massimo la cosa poteva riguardare il solito nucleo ristretto il cui numero era il numero di Dunbar, quelle 150 circa persone che, facendo parte di un nucleo sociale, erano interessate all’evento: Urgr è rimasto incornato da un’antilope, che disgrazia, glie lo avevo detto, e adesso? Oggi, chiunque entri nella nostra sfera per sol colpo d’occhio all’improvviso ci precipita nella consapevolezza – errata, eppure al tempo stesso corretta – che siamo tutti parte di una grande collettività interconnessa. Per cui, basta che sull’autostrada un’auto si fermi per permettere al bimbo di fare pipì e gli fumi il radiatore che uno dei veicoli in carreggiata rallenti di 5 km/h per osservare cosa succede, e per un semplice motivo di fisica, venti chilometri più in giù dopo qualche minuto si forma una coda per curiosi di cinque chilometri. Interconnessi: anche troppo. L’orizzonte dell’osservazione non è più quello che è a portata dei nostri occhi e che, ragionevolmente in quanto tale, ci spinge a tenerli aperti; no, qualsiasi disgrazia da qualsiasi parte del mondo, se sufficientemente comunicata, diventa allora il seme dal quale dopo poco si genererà una folla, con tutte le specializzazioni sopra descritte.
Questo fenomeno, opportunamente coltivato, è chiaramente una manna per chi vive di informazione, perché il numero di coloro i quali vorranno fruirne sarà in questi frangenti altissimo; la qual cosa come possiamo osservare in questi giorni può dare il via ad ogni genere di devianze della comunicazione. Più la notizia è tragica, più può servire come mulo per caricarsi di ogni genere di pareri, indicazioni, paure, recriminazioni, vendette trasversali, propagande politiche, spot commerciali, che trovano allora una facile via per le coscienze di chi legge o ascolta o vede, coscienze in quel momento indebolite dal terrore, dall’angoscia, dal senso di pietà. Se a questo uniamo una gigantesca percentuale di crassa stupidità nell’esercizio di tale strumentalizzazione, allora otteniamo lo tsunami di inutile rumore cui sin qui siamo stati sottoposti. C’è la conta compulsiva delle vittime, con le comparazioni con i sismi di qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi epoca, con i suoi immancabili esperti: quelli che ad esempio ti dicono che nel terremoto in Cile del 2015 ci sono state solo 8 vittime, omettendo di dire che lì la densità di popolazione è di 11 persone per chilometro quadrato e che l’epicentro è stato a 46 km dal centro abitato, o che dai, in fondo quello dell’Aquila ha fatto più vittime.
Ci sono quelli che in televisione gli scappa detto che è il momento di essere positivi che la ricostruzione porterà tanto lavoro, e il politico allineato fa sì con la testa e indica le ripercussioni favorevoli per il PIL, e il politico disallineato ne approfitta per accusare di cretinaggine l’opposta fazione. Ci sono quelli che lavorano in un giornale economico e asseriscono sulla base del nulla che con 50 miliardi di Euro metti in sicurezza l’intera Italia, e che quindi basta metà di una Finanziaria per tre anni e tutto va a posto, non è difficile. Hai tredici stazioni radio? Fai l’esperimento: cambi canale ogni due minuti, e senti tredici volte le stesse due domande; si può prevedere un terremoto? E, quanto costa mettere in sicurezza il Paese? Poi ci sono quelli che ne approfittano per gettare discredito sul nemico: immigrati, destra, sinistra, gente coi capelli rossi che si sa, portano sfiga, da sempre; poi arrivano a frotte quelli che è un Castigo di Dio a causa degli omosessuali, dei carnivori, delle coppie conviventi fuori dal matrimonio, dei turisti giapponesi che fanno troppe foto. Poi ci sono i sismologi della domenica, che si sa che i terremoti sono causati dal fracking, oppure arrivano quando fa caldo, oppure ancora è il solito nemico di James Bond o la CIA dallo spazio, che il terremoto in realtà è stato causato apposta per deviare l’attenzione dai veri problemi del Paese – perché qualche centinaio di morti per disgrazie varie una volta ogni tanto non sono certo paragonabili al grave problema del Signoraggio, quelli che fanno la morale a chi non interviene, quelli che se non intervengono anche solo con una notiziola o un post si sentono fuori dal giro, quelli che si incazzano con Renzi perché non piange abbastanza e quelli che se piange sono lacrime di coccodrillo, quelli che facciamo silenzio, quelli che urliamo al cielo il nostro No, quelli che la Protezione Civile è tutto un magna magna – e quelli che, zitti zitti, approfittando della visibilità della notizia ci affiancano le loro pubblicità, vendesi sistema di antifurto, resort in Sardegna multiproprietà, corso per diventare ricchi, auto sportiva come nuova, abbonamento alla consulenza fiscale, casa appena lesionata libera subito.
Su tutto, le storie strappalacrime dei cani eroi, dei pompieri eroi, delle famiglie devastate chiuse in macchina o allineate sotto ai lenzuoli, delle gente attonita la faccia una maschera di polvere che alla domanda se è scioccata non capisce la domanda perché è in stato di choc, lo sciacallaggio della foto del bambino nepalese rivenduta come foto ora di maschio, ora di femmina, sempre di Amatrice, l’importante è in qualche modo far parte del Grande Racconto dell’Anche Io c’Ero quella volta, coi selfie di squinzie ipertruccate al mare che esprimono solidarietà. Ma quella presa di coscienza che deve invece venirti tipo alle due del mattino, quando ti svegli atterrito per aver sentito un rumore sconosciuto e capisci che può capitare anche a te, mai, o quasi mai, che è l’unica empatia – assieme al prestare soccorso in maniera organizzata, e al fare informazione in maniera professionale e dignitosa – che vorremmo vedere. E ci torna in mente quel film terribile col quale Kirk Douglas e Billy Wilder non potevano vincere l’Oscar che è stato “L’Asso nella Manica”, lezione dalla quale poi abbiamo dimostrato di saper prendere atto nell’orchestrate circhi mediatici come quello cresciuto attorno ad Alfredino Rampi. E capiamo, ora che siamo molto social e molto media, ora più che mai, che dal Pozzo di Vermicino non se ne esce più interi. Né tantomeno puliti.