Inquietudine, fede e (limpida) poesia di Margherita Guidacci

di Rosalba de Filippis

Firenze – Pubblichiamo l’articolo che Rosalba de Filippis ha pubblicato sull’ultimo volume di “Testimonianze” sul tema “Pianeta Donna”. Un titolo proposto non per segnare una linea di demarcazione e di separazione, bensì per dare risalto a quella parte del pianeta (o «altra metà del cielo») troppo spesso non adeguatamente considerata o messa in ombra.
L’articolo è dedicato a Margherita Guidacci, fiorentina, una delle più importanti poetesse del Novecento. 

Margherita Guidacci, della quale quest’anno ricorre il trentennale della scomparsa, nacque a Firenze nel 1921; in seguito si trasferì a Roma, dove visse e lavorò per lungo tempo. 1921-1992: un curioso accostarsi di date, in cui vita e morte sembrano vicine a tal punto, che il breve tratto di una semplice esistenza sembra quasi annullarsi all’interno di un sottile discrimine.

Un «alto spartiacque»

Discrimine che nella poesia di apertura della sua prima raccolta, La sabbia e l’Angelo, nata negli anni della guerra e pubblicata nel 1946, si traduce in «alto spartiacque», da cui si leva come un grido la voce dei poeti.

«Chi grida sull’altro spartiacque è udito da entrambe le valli. / Perciò la voce dei poeti intendono i viventi e i morti.»[1]

Nata in una famiglia piena di affetto, ma composta per lo più da persone avanti con gli anni, Margherita ci racconta di aver conosciuto prima l’esperienza della morte dei suoi cari, che il piacere di scoprire e assaporare la vita; aveva dieci anni quando morì il padre, Antonio Leone, noto avvocato fiorentino che condivideva il suo studio con Piero Calamandrei. Un evento che lasciò un segno indelebile in Margherita, bambina sensibile, poco propensa a stabilire rapporti di amicizia con i coetanei, piena di curiosità intellettuali, che aveva iniziato a dedicarsi molto presto alla scrittura.

La sua famiglia era originaria del Mugello e possedeva una casa a Scarperia, dove Margherita tornava per i mesi estivi e in cui trovò rifugio con la madre durante l’ultimo anno di guerra. Il Mugello e il suo paesaggio:

Orizzonte del Mugello

Il Giogo non ci manda altro che vento

Senza più l’odore dei pini

Dacché la guerra gli tolse ogni fronda

(Un inverno inaudito, irrevocabile)

Lasciando intatto solo un erto scheletro

Di rupi.

Rupi celesti, le nuvole

Fanno su quello un’incerta catena

Nella croce dei venti che si stende

Sopra il Mugello.

Ma dal Falterona

Sorgono i campi. Ad esso il contadino

Volge lo sguardo per sapere se il giorno

Gli riserbi, oltre ai soliti, altro affanno.

 

Lungo e nero è il Senario: una scogliera

Cui salgono in crescenti ondate i poggi

Del Buonsollazzo

Fermo, da Ponente

Monte Calvi conclude l’orizzonte:

Ultima vela della luce e faro

Sopra la valle silenziosa, prima

Che la notte subentri a tutti i monti

Col suo più dolce, segreto spartiacque.[2]

La poesia di Guidacci, che, con La sabbia e l’Angelo si presenta già nella sua pienezza espressiva al punto da far scrivere a Giorgio Caproni, in una recensione del 1947: «è nata in Italia la voce di un poeta nuovo», riceve, l’iniziale viatico dello stesso Carlo Betocchi, con il quale si crea, come alcune lettere del poeta alla Guidacci ci raccontano, un rapporto nutrito dello stesso candore, con uno sguardo verso le cose del mondo della stessa disarmante purezza.

Margherita Guidacci, una intellettuale a tutto tondo: poeta, traduttrice, saggista di una sensibilità raffinata cui, come scrive Maura Del Serra, si univa «(…) anche il dono radicante di comunione magica con gli elementi primigeni della natura creante e creata, in particolare con l’acqua»[3]. Era in grado di  fiutare l’acqua, Margherita, con le sue doti rabdomantiche, grazie alle quali i contadini del luogo scavavano con successo i pozzi nelle campagne circostanti; dote che per sua stessa affermazione, si esaurì di colpo, a matrimonio avvenuto, come se la concretezza della vita, le piccole e grandi incombenze del quotidiano, avessero in qualche modo interrotto quel profondo flusso del sangue che si risvegliava  nelle sue  vene, quando, con il suo pendolino, quasi come una scossa, sentiva l’acqua scorrere nelle viscere della terra. (D’altra parte, la confidenza con l’oscurità, con il ventre della terra, è propria di una dimensione sibillina e Sybillae, sarà il titolo di una sezione de Il buio e lo splendore del 1989).

L’acqua si lamenta

«La fine venne improvvisa e netta col mio matrimonio, come se avessi valicato -è il caso di dirlo letteralmente- un inatteso spartiacque».[4] Senza possibilità di ritorno. Come una distanza, un vuoto incolmabile. Una pagina che si volta per sempre. Il profilarsi di un «cono d’ombra», di un Lato di ponente, un insieme di scritti tra poesia e prosa, raccolti in un libro pubblicato postumo, nel 2021, «una miniera nascosta, vibrante di umana inquietudine, un diario-taccuino di lavoro in cui è registrato di tutto: intuizioni, smarrimenti, lacerti poetici, sogni, meditazioni, severe autoanalisi e disarmanti confessioni.»[5]

L’acqua, d’altronde, a confronto con i primi disastri ambientali degli anni sessanta-settanta, causati dall’inquinamento indiscriminato dei fiumi, diventa per Margherita Guidacci anche il simbolo di una natura stravolta e contaminata in modo quasi irreversibile dall’intervento dell’uomo, spinto dall’interesse e da una cieca e autodistruttiva sete di benessere.

 

L’Acqua si lamenta

L’acqua si lamenta:

Ho sete! Ho sete!

Sono bruciata

Da una fetida melma,

del verderame degli acidi.

Sono soffocata

Dai pesci morti e gonfi.

Grossi aculei di ferro

Rugginoso mi pungono

La tenera gola.

Una sorda febbre

Mi divora.

Datemi, vi prego

Un goccio, … di che?

Di che? Questo è il problema

Davvero insolubile!

E a noi chi potrà dar da bere

Se anche l’acqua ha sete![6]

Cugina, da parte di madre, di Nicola Lisi, grande intellettuale toscano, fu lui ad accompagnarla nelle lunghe passeggiate e a far «scoprire il Mugello ad alcuni dei più bei nomi della cultura fiorentina, come Giuseppe De Robertis e Francesco Maggini, gli illustri italianisti che allora insegnavano rispettivamente alla facoltà di Lettere e alla Facoltà di Magistero»; fu Lisi a iniziare la giovane Margherita  alla lettura della poesia contemporanea, regalandole una copia degli Ossi di seppia montaliani; allieva di Giuseppe De Robertis, si laureò con una tesi sulla poesia di Ungaretti, grazie anche alla frequentazione della biblioteca personale di Giovanni Papini. Guidacci non fu incline, però, all’esperienza dell’ermetismo; «(…) Al mio inizio universitario (…) nella Firenze ermetica del ‘40 -scrive Margherita- ho tentato di conformare i miei risorgenti impulsi lirici alla poetica allora in auge. Il mio paradosso fu proprio questo: che mentre avevo la miglior volontà di assimilare quella poetica, in me qualcosa d’indipendente dalla volontà e di più profondo della volontà rifiutava di assoggettarvisi», nella consapevolezza che la sua ricerca «avrebbe dovuto svolgersi in un accostamento drammatico di significati, anziché in un accostamento magico di suoni»[7].

Fine studiosa della letteratura anglo-americana, prima fra tutti, dell’opera di Emily Dickinson (poi tradotta per Rusconi nel 1961)[8], Margherita ebbe modo di conoscerne e apprezzarne le poesie, grazie a un libro di cui le fece dono, durante la guerra, il soldato di origine cilena Francisco Canepa, (poi ripartito per fare ritorno a casa, e ritrovato, fortuitamente, a distanza di moltissimi anni; a questo nuovo e inaspettato incontro saranno dedicati i versi di Inno alla gioia del 1983).

Una ideale comunità di intelligenze

Guidacci nutriva una passione per la scrittura e per l’arte che la avvicinava agli autori e alle autrici a lei più congeniali, creando con essi una ideale comunità di intelligenze con cui dialogare, al di là dello spazio e del tempo, in una mappa delle più convincenti presenze del suo lavoro di traduzione, quali: Eliot[9], Dickinson, Bishop, Smart, Donne, lo stesso Conrad. E molti altri. La sua era una voce volutamente appartata, indifferente alle tentazioni di una notorietà troppo facile ed esteriore, consapevole dei rischi di una eccessiva esposizione: «Mio Dio, – scriveva – salvami dalla parola condotta in parata come un vitello nel giorno di fiera».[10]

Margherita si sposò nel 1949 con il giornalista Luca Pinna, ebbe tre figli (Antonio, Lorenzo, Elisa) e visse, comunque, sempre insieme alla amata madre Leonella, in quattro case, tra Firenze, Scarperia, e Roma. Fu insegnante, in particolare docente di Letteratura anglo – americana, prima presso l’Università di Macerata e poi alla Lumsa di Roma. Fu legata da profonda amicizia ad Anna Ninci Meucci, figura di spicco nell’ambiente culturale fiorentino dell’immediato dopoguerra, con cui Margherita condividerà l’amore per la matematica e la stessa fede religiosa, un sentire profondo, derivato dalle letture giovanili delle Sacre Scritture. Le sue parole, i suoi versi, i suoi testi sono costellati di rimandi a immagini, a suggestioni, a figure di origini bibliche, di riferimenti ai Salmi, al Vangelo[11], con una particolare predilezione per l’Antico Testamento: «mi colpisce molto -scrive Margherita- il senso di attesa che avevano sia i profeti che il popolo. Mi colpiscono le loro peregrinazioni, il soggiorno nel deserto, certe situazioni che oltre alla loro drammaticità storica sono dei simboli mirabili per esprimere come l’uomo si può sentire sulla terra».[12] Un’attesa trepidante, talvolta  disperante, fino a mettere in dubbio tutto, con singolari consonanze con i fulminanti interrogativi del Caproni più maturo,. ma soltanto per poi ritrovare il motivo di una rinascita, di un risarcimento, di una sete finalmente saziata, in presenza del divino.

C’è, in tutta l’opera di Margherita Guidacci, un’interrogazione costante sul mistero del mondo. Talvolta affiora in lei il pensiero che dopo la morte non possa esserci, davvero, che il nulla. Un pensiero, poi, riscattato dalla fede nella Resurrezione. Ma si tratta di una fede da non dare mai per scontata, da riconfermare e riconquistare ogni volta.

Il contesto storico e culturale con cui Margherita Guidacci, (con lo pseudonimo di Andrea Luti), si confronta, è quello della Firenze dell’immediato dopoguerra, dopo la devastante esperienza dell’occupazione nazifascista, con ancora molto vivo negli occhi il ricordo avvilente di una città in rovina; «(Firenze, o meglio i suoi successivi spicchi, fu allora anche materialmente simile ad un’isola, un grande asilo di naufraghi in attesa che qualche nave finalmente li raccogliesse (…). Uno scenario per cui si chiama a raccolta la testimonianza dei nostri sensi: (…) la promiscuità, il disagio fisico, le code. (…) Un continuo traffichio, le materasse strascicate dai letti agli anditi e dagli anditi alle cantine, (…) gli strazi infiniti della vista, dallo scempio della città allo scempio delle persone) ».[13]

 Una Firenze poi animata dalle figure esemplari di La Pira, Don Milani, Balducci, della stessa Anna Ninci: un cenacolo di intelligenze, fervide e inquiete, seppur fra loro molto diverse, che aveva a cuore un rinnovamento della Chiesa e della società, in cui fosse centrale la dimensione degli umili e della prospettiva di un loro riscatto. Margherita collaborò tra l’altro alla rivista La Badia, fondata dal Giorgio La Pira, e coltivò una sincera amicizia con il coltissimo Padre Rosito di Santa Croce, seguendo con trepidante partecipazione le vicende di una città ricca di fermenti culturali, politici e religiosi, da intellettuale libera e inquieta qual era.

All’ipotetico lettore

Difficile ritrarre i contorni della figura di Margherita Guidacci, la cui opera poetica vasta e fondamentale, negli ultimi anni, oggetto di studio e di crescente attenzione da parte della critica, ha attraversato gran parte del Novecento; numerose le sue raccolte tra cui, oltre a La sabbia e l’Angelo, possiamo ricordare Giorno dei santi, l’oratorio Morte del Ricco, Paglia e polvere (una raccolta riemersa da un cassetto durante il trasloco da Firenze a Roma), e Neurosuite, un viaggio nella dimensione della malattia mentale, in un inferno di ascendenza dantesca, in cui i malati sono i dannati, ma senza alcuna colpa, di una clinica neurologica. Una raccolta, quest’ultima, che la stessa Margherita Guidacci definisce il nadir della sua produzione, mentre lo zenith può essere invece rappresentato dallo sgorgare, nel giro di pochissimi mesi, delle poesie di Inno alla gioia. Da ricordare il significativo Altare di Isenheim, in cui viene affrontato il complesso rapporto tra poesia e pittura, attraverso il filtro di una sensibilità che, per non essere travolta dalla bellezza, dall’inquietante opera di Matthias Grünewald, vi si avvicina con gradualità, andando ad indagare le ragioni del suo turbamento al cospetto del celebre altare.[14] D’altra parte, non si comprende a pieno la scrittura di Margherita Guidacci, se non si tengono in debita considerazione i due poli della  sua produzione, come ha osservato Margherita Pieracci Harwell: la poesia «lirica» cioè personale e la poesia di sincero afflato civile, come ad esempio quella de L’orologio di Bologna, dedicato alla strage della stazione di Bologna del 1980.

Significativo il carteggio con il giornalista e scrittore Tiziano Minarelli[15], proprio intorno agli ultimi anni del laboratorio poetico di Margherita Guidacci,  in cui vengono ulteriormente definiti i contorni di una figura appartata, schiva, disposta a rinunciare ad una popolarità inautentica, come aveva affermato nei suoi Consigli a un giovane poeta del 1947, affidando infine il suo messaggio, il suo testamento spirituale al componimento All’ipotetico lettore, pubblicato per Edizioni di «Città di vita» nella raccolta postuma, Anelli del tempo, a un anno dalla sua scomparsa: Ho messo la mia anima fra le tue mani. / Curvale a nido. Essa non vuole altro / Che riposare in te. / Ma schiudile se un giorno la sentirai fuggire. Fa’ che siano / Allora come foglie e come vento, / assecondando il suo volo. / E sappi che l’affetto nell’addio / Non è minore che nell’incontro. Rimane / uguale e sarà eterno. Ma diverse / Sono talvolta le vie da percorrere/ in obbedienza al destino. [16]

 

Rosalba de Filippis

[1] Margherita Guidacci, Meditazioni e sentenze I, in La sabbia e l’Angelo, in Le poesie, a cura di Maura Del Serra, Firenze, Le Lettere 2020.

[2] Margherita Guidacci, Orizzonte del Mugello, in Paglia e polvere, Le Poesie, cit

[3] Margherita Guidacci, Introduzione di Maura del Serra a Le poesie, cit.

[4] Margherita Guidacci, Memorie di un rabdomante, «Il Popolo», 14 Luglio 1957, ora in Prose e interviste, a cura di Ilaria Rabatti, Editrice C. R.T., Pistoia 1999.

[5] Margherita Guidacci, Lato di ponente, a cura di Ilaria Rabatti, editrice petite plaisance, Pistoia 2021.

[6] Margherita Guidacci, L’acqua si lamenta, ne Il vuoto e le forme, Le Poesie, cit.

[7] Scheda autobiografica contenuta nell’antologia: Poesia italiana contemporanea (1909-1959) , a cura di Giacinto Spagnoletti, Parma, Guanda 1961; ora in  Prose e interviste, cit.

[8] E. Dickinson, Poesie e lettere, Fi, Rusconi 1961.

[9] Margherita Guidacci, Il fuoco e la rosa, I Quattro Quartetti di Eliot e Studi su Eliot, a cura di Ilaria Rabatti, editrice petite  plaisance, Pistoia 2006.

[10] Margherita Guidacci, Consigli a un giovane poeta, in Paglia e polvere, Le poesie, cit.

[11] Si vedano, a tal proposito, gli studi di Anna Maria Tamburini, su La letteratura sapienziale biblica, in Margherita Guidacci, La poesia della vita, Aracne editrice, Canterano 2019.

[12]Intervista a Margherita Guidacci, a cura di Mariangela di Cagno, in Prose e interviste, a cura di Ilaria Rabatti, cit.

[13]Andrea Luti, Firenze, un anno fa, «Rassegna» a.I,, n. 4, agosto 1945.

[14] Cfr. Graziella Magherini, Perturbante estetico e creazione artistica. Margherita Guidacci e l’Altare di Isenheim, in Per Margherita Guidacci, Atti delle giornate di Studio, a cura di Margherita Ghilardi, Firenze, Le Lettere, 1999.

[15] Cfr. Un carteggio di Margherita Guidacci Lettere a Tiziano Minarelli, a cura di Carolina Gepponi, Firenze, University Press, 2014.

[16] Margherita Guidacci, All’ipotetico lettore, in Anelli del tempo, Firenze, «Città di vita» 1993, ora in Le Poesie, a cura di Maura del Serra, cit.

 

 

 

 

 

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