La notizia è un bene che sempre meno persone sono disposte a pagare. In tutto il mondo, appena il 17%. In Italia, ancora di meno, visto che solo il 10% del campione sondato, dichiara la disponibilità a spendere per essere informato. È quanto emerge dal News Digital Report predisposto, come ogni anno, dall’Istituto Reuters. L’indagine, che riguarda 47 Paesi tra i più avanzati al mondo, consente di misurare gli effetti della transizione digitale nell’informazione.
Da un decennio ormai, più o meno, il report certifica una malattia conclamata: l’affermazione dei social ha vampirizzato il comparto dell’informazione. D’altronde, la qualità del giornalismo professionale è sempre meno riconosciuta sotto ogni latitudine, e allora, per il consumo quotidiano di notizie, la vandea dei social basta e avanza. In primo luogo, perché è gratis. E poi, perché la dinamica della profilazione consente di entrare in contatto solo con ciò che interessa. Tutto il resto, non ci riguarda più. E soprattutto non siamo più disposti a pagarlo.
Il quadro di riferimento, del resto, è ben delineato: il report 2024 attesta un consumo di social da parte di oltre 5 miliardi di persone. Il report del 2019, invece, riportava questi dati: “Il numero di utenti dei social media in tutto il mondo è salito a quasi 3,5 miliardi all’inizio del 2019, con 288 milioni di nuovi utenti negli ultimi 12 mesi, portando l’utilizzo globale al 45%. I dati di crescita quinquennale per gli utenti dei social media si rivelano ancora più sorprendenti di quelli per l’uso di Internet, con un totale globale di utenti dei social media quasi raddoppiato rispetto ai report del Digital 2014”. Fatti i conti, si può affermare che nel decennio tra il 2014 e il 2024, la fruizione dei social è sostanzialmente quadruplicata.
E siccome i social non fanno pagare l’informazione, il sistema economico legato al bene-notizia, è contemporaneamente, più o meno, andato a rotoli. Scrive Nic Newman, capo del team di ricercatori, nella sintesi del report: “Il principale luogo di consumo di notizie è rappresentato dalle piattaforme online (72%) piuttosto che dai siti web degli editori (22%). E per questi ultimi è sempre più difficile competere nella sfida della monetizzazione dell’informazione”.
Quanto alla gerarchia delle piattaforme, il report attesta un calo significativo di Facebook del 4% e un crescente ricorso ad app di messaggistica soprattutto video. Scrive Newman: “La fruizione delle notizie sulle piattaforme online si sta frammentando, con sei reti che raggiungono almeno il 10% di utenti. YouTube è utilizzato per le notizie da quasi un terzo (31%) del nostro campione globale ogni settimana, WhatsApp da circa un quinto (21%), mentre TikTok (13%) ha superato Twitter (10%), ora ribattezzato X”.
Quanto ai diffusori di notizie, cresce l’attenzione verso gli influencer e i creator digitali soprattutto su YouTube e TikTok. Mentre nei social network come Facebook e X, i marchi di notizie tradizionali e i giornalisti tendono ancora a mantenere un ruolo di primo piano. Interessante l’analisi sulla necessità di verità: “La preoccupazione per ciò che è reale e ciò che è falso su internet in merito alle notizie online – attesta il report di Reuters – è aumentata di 3 punti percentuali nell’ultimo anno, con circa sei persone su dieci (59%) che si dichiarano preoccupate dalle fake news e dai video cosiddetti “deep fake”.
È un quadro che fotografa l’affermazione crescente del video breve come strumento di diffusione delle notizie: i reel sono consultati ogni settimana da due terzi (66%) del campione sondato da Reuters, mentre i formati più lunghi ne attirano circa la metà (51%). È un trend alimentato soprattutto dai giovani che stanno sferzando tutto il mondo dell’informazione, sia televisiva che editoriale, ad affrontare con maggiore vigore i nodi di un inevitabile cambiamento.
Resta stabile, al 40% a livello planetario il dato della credibilità delle notizie e della fiducia nell’informazione, ma in Italia il dato cala al 34%.
Il report scende poi nell’approfondimento su ognuno dei 47 Paesi al centro della ricerca. E, per quanto riguarda l’Italia, la sintesi di sistema è la seguente: “Storicamente caratterizzato dalla predominanza della tv, una stampa debole ma influente e una trasformazione digitale più lenta che altrove, oggi il panorama italiano vede la tv perdere il suo primato e i grandi editori vendere gli organi di stampa tradizionali mentre quelli nati nel digitale sono seriamente impegnati a sfidare i player più affermati. Il sistema italiano dei media è in una fase di cambiamento”.
La dieta informativa in Italia è così sintetizzata: il 39% legge le notizie su social media e chat. L’82% si informa attraverso lo smartphone. Solo il 13% legge giornali (-3% sul report del 2023, -37% dal 2019 al 2023). C’è una accelerazione della crisi dei giornali a causa di un «consistente calo delle copie vendute (-37% dal 2019 al 2023) e degli inserzionisti che preferiscono altre piattaforme». Emerge, in sostanza, una debolezza di fondo che rischia di diventare endemica di fronte alla travolgente avanzata dell’Intelligenza Artificiale Generativa. Se grazie ai social l’informazione è diventata gratis, difficile che le automazioni aumentino il valore delle notizie tanto da riportarle sullo “scaffale delle merci” per le quali si è disposti a spendere. Resterebbe il tema della qualità dell’informazione, ma chi è disposto a riconoscerla come un bisogno per cui spendere? Il report di Reuters certifica l’ulteriore ripiegamento del sistema editoriale italiano: “Gli editori – si legge – generano solo una piccola parte (15%) dei ricavi pubblicitari digitali, mentre le piattaforme online come Alphabet/ Google e Meta/Facebook hanno fatto la parte del leone (85%)”.
Riportando anche il dato della chiusura delle edicole, scese da a quota 13.000 in pochi anni, i ricercatori dell’Istituto Reuters attestano ciò che è palpabile: “La crisi strutturale del settore dei quotidiani si sta accelerando, soprattutto a causa di un calo consistente delle copie vendute (-37%dal 2019 al 2023). La maggior parte dei giornali ha risposto implementando soluzioni di paywall, mentre alcune testate native digitali come Il Post, Open e Linkiesta hanno recentemente introdotto modalità di fidelizzazione attraverso iscrizione. Tuttavia, la nostra indagine mostra una variazione minima o nulla nella percentuale di utenti che pagano per le notizie online ogni settimana: solo il 10%. Fino al 2016-17 – si legge ancora nella ricerca di Reuters – gli editori storici sia di emittenti che di giornali dominavano ampiamente il mercato italiano delle notizie online. Poi, nuovi marchi nativi digitali si sono affermati negli anni, come Fanpage o Il Post”.
Per quanto riguarda la televisione, in Italia rimane molto popolare, ma il suo ruolo come fonte primaria di notizie è in costante diminuzione, con un calo dall’85% nel 2017 al 65% nel 2024. E appena il 50% degli intervistati più giovani (18-24 anni) utilizza la TV per le notizie settimanali. Cresce il gettito della pubblicità on line ma nulla fa pensare che questa tipologia di ricavi possa supportare un settore editoriale che in Italia appare avere un mercato più asfittico che in altri Paesi.
La foto è dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio