Pisa –
Nel 1999 il terremoto di Izmit, che causò la morte di oltre 15 mila persone e ingenti danni alle strutture, segna l’ascesa di Recep Tayyip Erdogan, già sindaco di Istanbul. La lenta e caotica gestione del drammatico sisma del febbraio 2023 (oltre 50 mila decessi) in molti pensavano che sarebbe stata fatale alla sua rielezione. Così non è stato, e il cerchio non si è chiuso.
In Turchia la vittoria elettorale del leader dell’AKP può essere riassunta nei commenti molto diffusi tra gli elettori ai seggi: “Ha migliorato le strade”. Ma soprattutto: “Ha costruito moschee”. In effetti, non c’è dubbio che in un ventennio di potere, praticamente ininterrotto, la cosa che ha marcato significamente le sue politiche di governo, a parte la riforma costituzionale, la riduzione dei diritti e l’epurazione degli oppositori, sia stata la campagna per l’islamizzazione della società. Con la metodica e sistematica realizzazione di siti religiosi dentro e fuori i confini nazionali. Strategia rivolta persino a edifici un tempo di culto cristiano, “convertiti” per volere del sultano in moschee, come ad esempio i casi di Santa Sofia e San Salvatore, sicuramente quelli più famosi alle cronache e fonte di maggiore attrito diplomatico con la Santa Sede. Il fatto che il voto religioso in un paese con una lunga tradizione laica, lasciata in eredità dal padre fondatore dello stato Atatürk un secolo fa, sia diventato determinante rappresenta il segno di un cambiamento culturale profondo, e radicato.
Il boom economico di cui Erdogan era stato l’artefice iniziale è oramai solo un ricordo lontano, un fiore appassito. Oggi la Turchia è in piena recessione, intrappolata tra inflazione, svalutazione della moneta, disoccupazione e aumento della povertà. Ciononostante i turchi non hanno votato guardando il proprio portafoglio, hanno scelto di dare credito, affidandosi ancora una volta, alla propaganda populista del loro presidente. Tuttavia, la vittoria maturata sul filo di un leggero scarto mostra un paese fortemente polarizzato, e i due contendenti alla presidenza hanno incarnato perfettamente questa rottura. Due figure politiche molto distanti tra loro, da una parte Erdogan e dall’altra lo sfidante, di centro-sinistra, Kemal Kilicdaroglu. Quest’ultimo sostenuto da una larga alleanza e appoggiato apertamente dalla minoranza curda. Kilicdaroglu sembrava essere in grado di mettere fine all’era di Erdogan e riportare Ankara sulla strada della piena democrazia. Ma dopo la delusione del primo turno in pochi avevano riposto fiducia nel ballottaggio. Ed è andata ancora peggio quando nel tentativo di recuperare voti Kilicdaroglu se l’è presa con rifugiati siriani (circa quattro milioni) e immigrati, con la convinzione di poter pescare voti tra i nazionalisti: errore sgradevole e inutile.
Alla folla festante Erdogan ha promesso l’inizio del “secolo della Turchia”. Per i critici invece questa è la continuazione di un’epoca sempre più buia.
Alfredo De Girolamo Enrico Catassi In foto Recep Tayyip Erdogan