Lenzuolata – 1 Il Tricolore e le radici di una comunità

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Signor Presidente, grazie, anzitutto, per aver accettato il nostro invito; grazie per essere con noi oggi, nel 220° anniversario del Primo Tricolore, nato a Reggio Emilia il 7 gennaio 1797, Un saluto al Ministro Delrio, alle autorità civili, religiose e militari, al professor Ernesto Galli della Loggia, cari studenti, signore e signori, benvenuti. Se ripercorriamo gli eventi, i personaggi, i luoghi che hanno accompagnato la storia del nostro paese, o riprendiamo i passi della nostra letteratura, dell’arte e dell’economia, della solidarietà e dello sport fino all’impegno dei nostri militari nelle tante missioni di pace, troviamo sempre – ad avvolgerci – il Tricolore, la bandiera nazionale, il rosso, il bianco e il verde. Da quel 7 gennaio 1797 che sancì la nascita della Repubblica Cispadana e l’adozione del Tricolore come bandiera di uno Stato, passando per tutta la vicenda storica risorgimentale che portò all’unità della nazione nel 1861, senza trascurare passaggi anche drammatici, pieni di idealità e coraggio che dall’antifascismo, alla Resistenza fino alla Liberazione e all’adozione della Costituzione portarono all’Italia Repubblicana, per noi reggiani, così come per l’intero paese, quella bandiera e quei tre colori restano il simbolo della libertà e dell’unità di un popolo, rappresentano un ideale alto di eguaglianza e giustizia efficacemente statuito nella Costituzione del 1948. Come ebbe a dire​ il Presidente Ciampi, che tanto più vogliamo ricordare oggi, proprio qui a Reggio Emilia, “il Tricolore è il simbolo moderno di un popolo antico, ricco di cultura, di tradizioni e di nobiltà d’animo, ma anche sofferente per secoli per la mancanza di una insegna che lo unisse, che rappresentasse la volontà di un destino comune”. Nell’impegno e nel protagonismo dei patrioti del 1797 così come nel lavoro dei costituenti del ’48 vi era uno spirito comune, una tensione politica e civile verso la creazione di un assetto capace di ospitare e difendere le ragioni di una convivenza civile e pacifica tra le donne e gli uomini del nostro paese, vi era in quell’impegno un lavoro prezioso di costruzione istituzionale.

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Le istituzioni come faro, appunto. Le istituzioni democraticamente elette, ma pure le articolazioni territoriali dello Stato, le forze di polizia, la magistratura, ma potremmo spingerci fino alle istituzioni educative o alle grandi organizzazioni impegnate ogni giorno su progetti di alta rilevanza sociale e sanitaria. Mai come in questa fase, di fronte alle tante insidie del nostro tempo, occorre richiamare la consapevolezza del significato profondo delle istituzioni, custodi di una comunità e punto di riferimento quotidiano in tanti ambiti della nostra vita comune, nel garantire ogni giorno convivenza civile nella pace e nella legalità della vita democratica e repubblicana. E le istituzioni trovano forza e autorevolezza quando sanno incarnare valori e virtù, quando l’esempio di chi ogni giorno le rappresenta sa essere all’altezza di un tale impegno. Diceva Montesquieu “ … la virtù, in una Repubblica, è l’amore per la patria, ​ cioè l’amore dell’eguaglianza. Essa non è né una virtù cristiana, ​ né morale, ma politica ed è la molla che fa muovere il governo ​ repubblicano”. Grazie Presidente per essere interprete ogni giorno al più alto livello e con la massima autorevolezza del senso e dell’importanza dell’assetto istituzionale e democratico del nostro paese. Viviamo un’epoca difficile. Due anni fa, proprio mentre ci approssimavamo a chiudere le celebrazioni del 7 gennaio, apprendevamo la notizia dell’attentato alla sede di Charlie Hebdo. Sono passati due anni e non vi è bisogno di aggiungere altro per testimoniare la portata del cambiamento che la vita civile europea ha subito per effetto dell’escalation del terrore fondamentalista. E’ un’epoca impaurita, attraversata talvolta da profonde lacerazioni sociali.

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Come ha scritto molto efficacemente Tzvetan Todorov il “ mondo non sembra più diviso da nord e sud, tra est ed ovest, o contrapposto tra grandi ideologie, ma attraversato e contrapposto intorno a grandi emozioni collettive.” Paesi nei quali si impone il risentimento, altri in cui domina la speranza, e sopratutto, il vecchio mondo occidentale, dove rischia di imporsi la paura come sentimento collettivo dominante. Il terrorismo, la crescente difficoltà a gestire i grandi flussi di donne e uomini giovani in fuga da paesi in cui guerre e persecuzioni non lasciano spazio al rispetto della dignità umana; una globalizzazione dove la finanza ha arricchito pochi e tolto speranze e opportunità alle nuove generazioni, che vedono crescere in modo inaccettabile gravi e profonde diseguaglianze. Dopo le grandi tragedie del XIX e XX secolo, di fronte alle insidie culturali e politiche dei primi anni del nuovo millennio abbiamo forse bisogno di ritrovare un fondamento morale e intellettuale alla nostra società, una rinnovata ambizione culturale che sia capace di guardare a fondo alle debolezze del nostro tempo e che provi magari a riscoprire e a rigenerare nello spirito illuministico – che tanto ha influenzato il nostro modo di essere, di pensare e di – quell’aspirazione che serve alla democrazia, che talvolta come è stato detto sembra non bastare più a se stessa ma che non può essere lasciata sola di fronte all’emergere di irrazionalismo identitario e fondamentalista, di fronte al crescere di fenomeni neonazionalisti e populisti, davanti al rischio che si consumi una rottura insanabile tra comunità e istituzioni. Il paese delle cento città ha ancora un grande serbatoio di energie civili, che sta proprio nella dimensione delle proprie comunità, dove il protagonismo civico dei cittadini, i legami di solidarietà, la partecipazione a progetti collettivi, il rapporto quotidiano con tutte le istituzioni tiene viva un’idea di collettività, vissuta come legame ad un sistema di valori, ad un senso di appartenenza, a una memoria condivisa generativa di sentimenti comuni di fiducia verso il futuro.

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Non è la prima volta, nella travagliata vicenda storica del nostro paese, che dai territori arriva quella spinta che genera collante per una intera comunità nazionale. In questi mesi, in queste ore vorrei dire, ci arriva dal Centro Italia, drammaticamente colpito da un’ondata di sismi devastanti, un esempio e una dimostrazione di quanto istituzioni e cittadini del nostro Paese sappiano lavorare assieme. In quelle zone abbiamo visto la mobilitazione di un paese intero al fianco degli sfollati, abbiamo visto l’Italia migliore quella che non si arrende, che ha fiducia, quella che sa diventare punto di riferimento morale di una intera comunità. Carlo Cattaneo ci ricorda quanto, nella storia, le comunità cittadine siano ​ ​ state “la spina dorsale della nazione”. Cattaneo vedeva nell’autonomia municipale “il mezzo privilegiato per fare compiere alla nazione opere grandi”. Un municipalismo fatto di legami, di incontri, di ponti, non di steccati e campanilismi, espressione di un Paese che nasce ogni giorno ‘dal basso’, dalla sua parte migliore, più autentica e generosa, più reale e orgogliosa di appartenere a una cittadinanza, a una civiltà più grande: nazionale, europea, globale. Da sindaco di una città di nobili tradizioni democratiche che ha fatto e fa – certo non immune dalle difficoltà del presente – della cittadinanza un valore fondante, dico che il nostro Paese può e deve ripartire da qui: dalle Comunità come embrioni e terreni fertili della cittadinanza, dell’appartenenza, quali laboratori di nuove sperimentazioni e prospettive, di fronte ai temi assillanti dell’ambiente, della qualità della vita, delle povertà vecchie e nuove. ​ Giuseppe Dossetti diceva: “Unire in piccolissimo l’universale”. Una lezione nuova e nello stesso tempo antica, che l’Italia conosce molto bene perché parte della sua storia millenaria: il piccolissimo della Città che racchiude l’universalità sociale, la globalità diremmo oggi. La Città altro non è che l’appartenenza, l’essere cittadini. Ed è nelle comunità che i rischi di bieche chiusure identitarie, i processi involutivi di spaesamento e solitudine possono ritrovare una risposta di segno opposto che dia vigore e gambe ad una rinnovata idea di cittadinanza ed uno sforzo di rinnovamento del pensiero democratico contemporaneo.

Il filo che unisce il 1797 con i giorni nostri, che tiene insieme senso delle istituzioni, comunità, idea di cittadinanza, presuppone la consapevolezza dell’emergenza educativa del nostro tempo, che tocca tutte le fasce sociali ed anagrafiche. Lo dico con l’orgoglio e la responsabilità di chi è nato e cresciuto in una città che è anche la città di Reggiochildren, la città dell’educazione da 0 a 99 anni; noi più di altri, proprio per il modo in cui siamo noti nel mondo intorno al significato dell’educazione, abbiamo il dovere di porre il tema del rapporto tra Educazione e Democrazia, di riscoprire l’esigenza di una educazione civile alla consapevolezza razionale del nostro tempo, per trarre fuori da ogni persona il ​ meglio che ha in sé o, come afferma Edgard Morin, colmare quella mancanza del nostro tempo che ci vede talvolta “impreparati ad affrontare i problemi fondamentali e globali dell’individuo, dell’essere umano, del cittadino”. Cari ragazzi, vorrei chiudere questo mio intervento con un pensiero direttamente rivolto a voi. I ragazzi del 1797 erano giovani e volevano realizzare qualcosa di grande. Come loro lo sono stati i giovani che tra il 1943 e il 1945 hanno contribuito a liberare l’Italia dal nazi-fascismo, e giovani erano i ragazzi che per tanto tempo hanno combattuto in Sud Africa contro l’Apartheid. La conquista civile, la conquista di libertà, il conseguimento di un mondo migliore non arrivano mai da soli. Arrivano se si è capaci di combattere, di immaginare e sognare un mondo migliore, di farlo anche accompagnati da una certa dose di incoscienza. Siate consapevoli del “pessimismo della ragione” ma lasciatevi spingere “dall’ottimismo della volontà”: l’Italia che vogliamo, il paese che vogliamo rilanciare è innanzitutto nelle vostre mani, nel vostro impegno, nella vostra intelligenza, nella vostra passione. Viva Reggio Emilia Viva il Tricolore Viva l’Italia.

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