Parigi, Bruxelles, Madrid, Londra. Berlino, Nizza. Scova l’intruso? No; non si tratta di un elenco recitato a memoria delle capitali europee, ma dei luoghi in Europa in cui sono stati compiuti attentati terroristici di matrice islamica. Se non avete presente Madrid, ecco il perché: i fatti risalgono all’ormai preistorico 2004, anno in cui una serie di colpi sul sistema ferroviario causarono ben 192 morti e 2057 feriti. Ma forse non ricordate i fatti anche perché era un altro mondo: allora non era l’Isis, ma al-Qaida a tenere banco nelle discussioni sul terrore internazionale, eravamo ancora in piena ubriacatura post 11 settembre – il mondo si andava trasformando in seguito al crollo delle Torri Gemelle – e i benedetti social ancora praticamente non esistevano per intasare le nostre arterie informative coi loro giudizi sommari, protesi di complotto e razionalizzazioni da macellaio. Eppure, vale la pena di considerare quei lontani fatti per poter interpretare anche quelli presenti e attuali: allora come ora, lo stesso disordine, la stessa insensatezza, la stessa mancanza di strategia. E, quel che è infinitamente peggio, lo stesso scenario di utilità del terrorismo per altri fini che non siano rivendicare diritti di popoli che, peraltro, o non hanno interesse o voce nel rivendicare torti reali o immaginari da loro subiti geopoliticamente, oppure lo farebbero volentieri in ben altre sedi e con ben altri metodi.
Quello spagnolo, arrivato alle nostre cronache dell’epoca con voce tutto sommato abbastanza flebile – in fondo, cosa sappiamo noi di quello che succede in Spagna, nazione apparentemente affratellata alla nostra ma in realtà decisamente aliena alla nostra cultura? – è stato un pasticciaccio confuso trascinatosi per anni, tra indagini sempre più in profondità, processi, insabbiamenti, informazioni incomplete o al contrario minuziosissime che ha messo in luce alcuni aspetti che oggi tornano alla ribalta nei più recenti attentati. Che sono i seguenti. Innanzitutto, non esiste una strategia ben precisa degli attentati. Non pare esserci un coordinamento centrale, una ben precisa manovra tendente ad ottenere un risultato specifico: l’organizzazione dei colpi pare avvenire di volta in volta a partire da una singola cellula, che compie il suo sporco lavoro e poi se ne vanta, e buonanotte. Non si vede un risultato complessivo posto in essere; a parte uno, ma ne parleremo dopo. Poi; le rivendicazioni sono sempre indecise e tardive. Come già appunto per l’11 settembre, come se gli attentatori volessero prima valutare se il risultato del loro lavoro possa o non possa piacere ad eventuali fans. Come di chi faccia un graffito su di un muro, e poi aspetti a vantarsi per la prodezza solo dopo aver constatato che non solo non prenderà le manganellate, ma magari qualcuno gli dirà pure che è bravo; in caso contrario, meglio starsene zitti. Terzo punto, quello degli attentatori. Tra di essi non figurano praticamente mai persone di spicco dal punto di vista politico o culturale, al contrario di tutti gli altri sistemi di terrorismo della storia, compresi quelli – e non storcete il naso di fronte al paragone – della Resistenza italiana. Gli attentati moderni si servono di delinquenti comuni, sbandati, disperati, ossessionati, rimbecilliti a suon di indottrinamenti, tossicodipendenti, suonati vari. Qui, in altri tempi, in Grecia, in Irlanda, fate voi gli esempi, i resistenti di ogni causa se non sono già persone di spicco lo diventano, si assumono le responsabilità, pagano il prezzo, in seguito proseguono la lotta non più armata con metodi politici e culturali; per quanto possano sembrare accostamenti arditi, Mikel Irastorza, Sandro Pertini, Martin McGuinness, Alekos Panagulis sono uniti da un filo comune al quale non partecipano per metodi e concetti i terroristi islamici. Tanto più che i citati hanno sempre lottato per opporsi a nemici interni, non già esterni, fumosi e in ultima analisi in gran parte estranei ai fatti come chi si trovi in altre Nazioni. Anche questo è un punto comune: opporsi alle ingiustizie interne al proprio sistema in quanto considerate colpa di azioni perseguite da soggetti esterni, punendo soggetti esterni estranei ai fatti, di solito neppure schierati ideologicamente a favore o contro. Con una precisazione: mano a mano che ti mettono le bombe in casa, tendi a schierarti contro, inevitabilmente. E quindi: cui prodest?
E con questa domanda che dovrebbe come al solito essere la prima da porsi, mentre invece è quasi sempre l’ultima – se pure arriva – chiudiamo il discorso sugli attentati di Madrid, osservando come per lungo tempo si seguì per essi la pista interna della motivazione del disordine da causarsi in funzione politica ed elettorale. Motivazione non annullata dal corposissimo apparato di indagini, processuali e non, che seguì i fatti di sangue, ma che che in un certo punto non ben definito sembrò sparire dal banco degli imputati. E c’è poco da parlare di complottiamo: fu insabbiamento della più bell’acqua. Quello che invece non sparì affatto fu la certezza che, se pure la politica inizialmente non c’entrava (molto discutibile e mai provato) di sicuro la politica in seguito strumentalizzò biecamente i fatti servendosene per portare alla ribalta, e al successo se del caso, istanze di controllo sociale e civile che noi, in Italia, non dovremmo faticare ad immaginare, dati i nostri trascorsi. La cosa curiosa è che oggi si sta verificando lo stesso schema, e non solo in molti non se ne accorgono o bollano la cosa come complottiamo, ma se pure riconoscono il disegno sottostante si dichiarano addirittura pronti a sottoscriverlo: più ordine, più disciplina, meno invasori che ci rubano il lavoro, al semplice prezzo di qualche ritocchino a libertà civili, di espressione, di pensiero che dopotutto a chi mancherebbero, a pancia piena? Suvvia. E così, mentre siamo tutti qui a chiederci come mai in Italia ancora non siamo stati presi di mira – ma gli analisti assicurano compatti che è solo questione di tempo, anche se degli analisti non ci si dovrebbe sempre fidare – e che lo scopo di tutti questi bagni di sangue è minare la malvagia società occidentale alla base, a noi non resta che stare alla finestra osservando come in realtà gli attentati colpiscano più islamici, nei Paesi islamici, che non europei o anglosassoni (americani compresi) in genere; solo che nel loro caso fa meno notizia. Come il recentissimo attentato di Baghdad in pieno Ramadan, rivendicato con una certa titubanza dall’Isis e per il quale persino al-Qaida (un marchio a quanto pare in declino) ha protestato, alla faccia del fronte compatto del terrorismo islamico. No; a ben guardare, la lotta contro il Grande Diavolo Occidentale, fonte di ogni male conosciuto dall’uomo per i fedeli dell’Islam (ma poi, chi sono costoro, quando ci spartiamo prodotti, servizi e cultura di continuo, con gran passare di soldi e di mode da un lato all’altro, da sempre?) non ha e non ha mai avuto ragione di esistere, né tantomeno di assumere le forme che oggi appaiono così evidenti.
Le motivazioni più plausibili, invece, restano sempre le stesse. La prima: farsi notare da finanziatori internazionali pronti a reclutare, per i quali questi attentati costituiscono esperienze significative in curriculum vitae che porteranno a selezionare gli assumibili per i più disparati scopi. La seconda: una strategia del terrore utile alla manipolazione politica, a ridosso delle ormai infinite campagne elettorali, che possa avvantaggiare questa o quella compagine in grado di offrire alla spaventata collettività le soluzioni che ben conosciamo. E se non siete convinti, citiamo alcuni episodi che sembrerà strano ricollegare agli attentati moderni di matrice islamica, ma che avevano in comune le stesse rivendicazioni fumosissime e gli stessi obiettivi inconsistenti, la stessa ubiquitarietà, le stesse logiche tra il cretino, il criminale e l’utilissimo a certi scopi: Piazza Fontana, 1969; Italicus e Piazza della Loggia, 1974; Bologna, 1980. Le strategie della tensione sono sempre le stesse.