Non mi sono mai occupato in maniera specifica di arte e, più in generale, di Cultura reggiana. Ne ho conosciuto, e non di rado stimato, molti dei suoi protagonisti e le loro opere, ma non ho mai inteso approfondire alcuno, tranne qualche rarissima eccezione, preso com’ero (e sono, nonostante questa digressione) a praticare, soprattutto nell’ultimo decennio, quel finale principio che m’ero imposto: abitare a Reggio, ma non viverci. Ciò mi ha consentito di conservare una visione ancora largamente incorrotta, quindi idealmente imparziale, del panorama artistico locale, ancor più di quello che generazionalmente mi è più lontano, quindi ancor più estraneo a livello personale.
La storia dell’arte reggiana degli ultimi cinquant’anni rispecchia largamente lo spirito che da secoli si è sviluppato e domina tutt’ora, determinandone scelte e destini, il carattere dei cittadini di questo lembo di Pianura Padana sotteso fra le ducali e principesche Parma, Modena e Mantova (addirittura Guastalla e Correggio).
Per secoli, infatti, Reggio Emilia non è stata che un mero crocevia sulla strada per quelle capitali. Per secoli i reggiani hanno visto passare davanti ai loro occhi carrozze fastose, corti e cortei favolosi diretti nelle vicine corti. Un luogo di transito, dunque, anche se formalmente legato (e subalterno) al potere degli Estensi, dopo varie vicissitudini che lo hanno visto passare transitoriamente (e senza eredità sostanziali) ai Gonzaga ed ai Visconti.
Queste alterne e varie vicissitudini hanno finalmente trasformato Reggio Emilia in una sorta di “non-luogo”, senza storia né caratteri nobilmente propri. Ciò ha conseguentemente generato una sorta dipendenza quando non di isolamento culturali; un originario complesso di inferiorità che è scaturito, cronicizzandosi nel corso dei secoli ed addirittura dei millenni, in un provincialismo sempre eccessivo, sotteso fra un eccesso di conservatrice diffidenza ed uno, altrettanto deleterio, di progressistico entusiasmo (il nuovo o è percepito come confusione,caos, disordine e immoralità corruttiva o, di contro, come bellezza,meraviglia, modernità e utile, doveroso progresso ad ogni costo).
Questa mancanza di equilibrio critico, quest’insicurezza profonda e quel senso d’inferiorità radicato, nemico di qualunque eccellenza nostrana, hanno fortemente segnato il carattere e la cultura reggiane, prive com’erano (e sono rimaste) di caratteristiche proprie, nonostante nei secoli, fino ad oggi, questa terra abbia dato i natali a personalità che hanno inciso in maniera fondamentale la cultura occidentale.
Ma che, tranne qualche rarissima eccezione, (che io non ho ancora saputo identificare) non sono mai stati veramente riconosciuti e celebrati in patria. Basti pensare all’esempio emblematico di Gaspare e Carlo Vigarani, scenografi e architetti reggiani d’origine, approdati, dopo la corte estense di Modena, addirittura alla corte di Luigi XIV a Parigi e Versailles (decenni prima dell’approdo dell’altrimenti più celebre e celebrato Bernini), dove lasceranno segni fondamentali destinati ad influenzare e rivoluzionare in maniera radicale il gusto, le tecniche e la cultura del loro tempo, benché tutt’ora semisconosciuti nella loro città (dove pure hanno lasciato invidiati capolavori di sublime grandezza).
O Ludovico Ariosto e Matteo Maria Boiardo, il primo ricordato solo con l’intitolazione di un teatro, il secondo con un cinema che manco esiste più ancorché esista un luogo magico e sublime, il Mauriziano, la sua casa con annesso parco, adibito ad attività culturali di livello addirittura infamante.
E Antonio Panizzi: chi era costui? Eppure qualunque cittadino britannico (e nonsolo) minimamente alfabetizzato conosce Sir Anthony Panizzi e le ragioni dell’intitolazione a lui, reggiano di Brescello, della British Museum Library di Londra, nel 2000 magnificamente restituita a nuova vita da Lord Norman Forster, che l’ha posta al centro di un’ideale “great court” addirittura intitolata a Sua Maestà Elisabetta II. E dico poco.
Nel corso del Novecento,poi, questa sorta di idiosincrasia reggiana verso il genius loci ha assunto un’evidenza ed una drammaticità davvero paradossali. Ad esempio Umberto Tirelli che, nonostante sia universalmente conosciuto e riconosciuto come il più grande sarto teatrale del secolo scorso (grazie alla collaborazione con registi e costumisti come, tra i tanti, Luchino Visconti, Pier Paolo Pasolini – e Maria Callas – Franco Zeffirelli, Sergio Leone, Ettore Scola, Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Sidney Pollak, Milos Forman, Pier LuigiPizzi, Luca Ronconi, Piero Tosi, Gabriella Pescucci, Franca Squarciapino, il reggiolese del mondo Maurizio Millenotti e tanti, tanti altri giganti assoluti della storia del teatro e del cinema), in patria giace dimenticato, rimosso, cancellato (eccezion fatta per una – purtroppo sconosciuta ai più e decisamente mortificante – sala nel Palazzo dei Giganti della natia Gualtieri, contenente capolavori dalla sua collezione lasciati in donazione dopo la sua scomparsa nel1990 e per qualche, ammirevole decennale commemorazione – come quella avvenuta di recente – nella suo piccola, ma immemore, cittadina).
Lo stesso dicasi per Romolo Valli (al quale è stato dedicato un teatro nel quale, paradosso nel paradosso, non si rappresenta teatro di prosa), Maria Melato, Serge Reggiani, il direttore d’orchestra Gianfranco Masini. Nelle arti visive,poi, la damnatio memoriae reggiana verso i suoi figli rasenta il parossismo. Basti solo pensare che, nella nostra contemporaneità, tre reggiani – Fabrizio Plessi (al quale sono state dedicate mostre personali anche al Guggenheim di New York ed al Centre Pompidou di Parigi), Omar Galliani e Claudio Parmiggiani– compaiono fra i massimi protagonisti dell’Art-System globale, ma non hanno cenni di memoria o degna celebrazione nella loro città, eccezion fatta per un sipario raramente visibile (Galliani) ed un tardivo (2012), solitario altare nella cattedrale cittadina (Parmiggiani), mentre una giovanile installazione donata da Plessi ai Civici Musei arrugginisce nei depositi in compagnia di centinaia di centinaia di opere di decine di artisti locali dimenticate.
Lo stesso Enrico Prampolini (Modenese di nascita ma reggiano a tutti gli effetti), compagno d’avventure artistiche di Picasso, Mondrian e Kandinskij e padre delle avanguardie storiche europee, non trova occasione di memoria e celebrazione nella sua amata città d’adozione. E Luigi Ghirri? Il più grande fotografo italiano del Novecento ha donato il suo archivio al Comune di Reggio Emilia, e quel patrimonio di immensa importanza globale sta rinchiuso nei cassetti della Biblioteca Panizzi; a nessuno è venuto in mente di allestire un museo, nonostante gli spazi espositivi non manchino e siano largamente, se non totalmente, inutilizzati.
Ma poi, ancora tornando al teatro ed alla danza, lo scomparso Piero Simonini, scenografo di Jean Cocteau e Roland Petit a Parigi, l’immortale tenore/attore Ferruccio Tagliavini o Amedeo Amodio, trai più importanti coreografi contemporanei e padre (rinnegato) dell’Aterballetto, Armando Gentilucci (ed il suo epigono Paolo Perezzani) e l’ormai globalmente celebrato e già ricordato Maurizio Millenotti: rimossi. E Max Gallo, reggiano d’origine (parla il dialetto e s’illumina quando lo sente parlare), il massimo biografo di Napoleone ed elevato all’immortale gloria dell’Accademia di Francia?
E l’elenco potrebbe continuare ad nauseam, prova provata di una provincialissima (nel senso deteriore del termine) e molto radicata ostilità verso qualunque forma di diversità del talento (solo ed esclusivamente verso l’eccellenza, si badi bene) che il reggiano nutre verso i propri figli. Paradossale, poi, che nella città esistano intitolazioni a personaggi semisconosciuti e memorabili solo per quelle occasioni, ma non esiste nulla che ricordi e celebri, ad esempio, Achille Maramotti, cavaliere d’industia padre dell’oggi globale Max Mara.
Così chi poteva se n’é andato ed ai talenti (non pochi) che sono rimasti non è rimasta che frustrazione, rassegnazione e (spesso rabbiosa) speranza.
Un discorso analogo vale per iniziative o imprese nate, cresciute e poi rimosse tra le quattro porte cittadine. Basti ricordare “Micro Macro”, festival di teatro di strada che portava a Reggio compagnie da tutto il mondo,“Di Nuovo Musica” (nata sulle ceneri ancora calde di quella straordinaria ed unica esperienza che fu “Musica e Realtà”, la manifestazione che tenne a battesimo Claudio Abbado – che al Municipale diresse lasua prima opera – e Maurizio Pollini) che trasformò la città in una vera capitale europea della musica contemporanea (con Parigi,Vienna e Berlino), il Festival del Balletto, che vide passare da Reggio Emilia i più importanti coreografi e le più celebrate compagnie di danza del mondo (ricordo ancora quando era possibile incontrare per strada Martha Graham, ad esempio).
O la gloriosa stagione dei Teatri, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, con la produzione di spettacoli destinati ad entrare nella storia e che hanno portato il Municipale al centro della scena musicale europea (e mondiale) di quegli anni (e dei successivi), con produzioni liriche firmate da Pier Luigi Pizzi che hanno girato i più importanti teatri e che ancora, dopo più di trent’anni, sono richieste (anche se nessuno lo ricorda mai) dai palcoscenici di tutto il mondo. Anche questo è stato tutto distrutto (anche fisicamente: il meraviglioso allestimento de “Nel giorno di santa Cecilia” fu letteralmente bruciato negli anni ’90 dall’allora presidente dei Teatri Ero Righi per liberare spazi nei depositi…), rimosso, cancellato, dannato (nel volume che commemora i 150 anni del Teatro Municipale se ne fa solo uno sbiadito e fugace accenno). Tutto ciò per far spazio, come si confà ad una provincia degna di tale nome, alla pallida “erba del vicino”: resa incondizionata ad una globalizzazione del gusto e del carattere che, qui, vede finalmente la rimozione di ogni memoria e di ogni virtù originale, segnando il trionfo di quel complesso d’inferiorità che da secoli cova, ferino, nell’intimo della maggior parte dei reggiani.
Questa analisi potrà apparire feroce e ingenerosa, ma è ciò che scaturisce da fatti concreti e storicamente evidenti, prima ancora che da personali (e inevitabilmente coinvolte) opinioni.
Cosa potrà mai pensare un “foresto” che approda a Reggio Emilia per la prima volta, ricco di memorie e suggestioni e relative aspettative tutt’altro che locali? Uno “straniero” che approdato fra le quattro porte reggiane si stupisce e incuriosisce di tanti paradossi. Ma come: Reggio Emilia, la città di Plessi, Parmiggiani e Galliani senza nessun segno di questi celebrati “artistar” per celebrare Sol Lewitt, Morris, Mattiacci, Spalletti, Nagasawa o Kounellis?
La città dell’Ariosto, del Boiardo e dei Vigarani senza nemmeno un museo che ne ricordi e documenti la straordinaria opera e l’influenza fondamentale che hanno avuto nel corso dei secoli? Non una via o un vicolo, non dico un museo (per altro dovuto) che ricordino Tirelli, Simonini o Reggiani? Non un archivio che documenti la straordinaria attività di Romolo Valli? Non (più) una manifestazione che celebri Gianfranco Masini, anche solo coinvolgendo il suo allievo più amato, quel Maurizio Barbacini altrove consacrato come direttore d’orchestra di prima grandezza, ma anch’egli reggiano, quindi rimosso.
Davanti a ciò l’”etrangér” rimane interdetto: tutto ciò che lui conosce di Reggio Emilia non ha traccia nella città. Eppure a Parma, a Modena,a Mantova…
In compenso il nostro foresto trova, fra le tante ma non troppe, una piacevole sorpresa,una scoperta inaspettata: un artista di talento e rigore evidenti, ma che non conosceva, che nemmeno aveva mai sentito nominare: Marco Gerra. Autore (si fa per dire trattandosi di opere postume e largamente manipolate) di monumentali sculture alle porte della città (ricavate, come il Nostro scoprirà da una ricerca immediata, non da bozzetti lignei, ma già da autentiche sculture fatte e finite, nate su suggestione di Corrado Costa, altro illustre dimenticato ma ben conosciuto dallo straniero, all’interno di un progetto che intendeva negare il concetto stesso di fissità monumentale: “sculture da passeggio” nate idealmente all’opposto di quanto poi realizzato.
Chissà che ne penserebbero il pittore Gerra e l’intellettuale Costa?) ed al quale sono addirittura dedicati un futuristico spazio espositivo ed una piazza, ma della cui valorosa erigorosa attività pittorica, hic et nunc, non esiste traccia alcuna negli spazi espositivi e culturali della città. Lo“straniero”, poi, scopre che tutta questa apparente fama è scandalosamente senza memoria ed è il risultato di un’ammirevole, devota, amorosa ma scaltrissima operazione di “marketing testamentario” da parte dell’ottuagenaria vedova (oggi scomparsa, ndr) che, facoltosa e senza eredi, ha di fatto barattato (non donato, si badi bene: le donazioni non ammettono né contemplano utilità in cambio) il suo patrimonio con la memoria del marito (cosa aveva da perdere?).
Per il resto nulla. O quasi.
Eppure Reggio Emilia,soprattutto negli anni ’60 grazie all’intelligenza ed all’immensa, raffinatissima sensibilità intellettuale di un sindaco comunista chiamato Renzo Bonazzi, è stato per decenni un luogo dalla vita artistica e culturale (quasi) senza pari: “Gruppo 63”, Escher, “Musica e Realtà”, “Living Theatre”, Martha Graham… Che è rimasto di tutto ciò? Chi sono gli eredi, i protagonisti d’oggi di quelle stagioni e come si sono evolute le loro espressività artistiche (pittoriche in questo caso) nei decenni successivi?
A Reggio Emilia, infatti, non esiste un museo dedicato al proprio Novecento, non uno spazio espositivo che “racconti” le varie e variegate espressività artistiche qui nate e cresciute, da quelle tradizionalmente (o originariamente) più legate alla forma iconica alle avanguardie, all’astrattismo in tutte le sue declinazioni. No: questa storia, appassionata ed appassionante, non trova voce. Nemmeno, di conseguenza, nel circuito della gallerie private (e sarebbe interessante interrogarsi sul perché). In via di estinzione i“vecchi” collezionisti e non avendo avuto la possibilità i “nuovi” di conoscere ed apprezzare questi artisti, a causa di politiche culturali palesemente disinteressate e dirigenti incapaci, la risposta è semplice e immediata). Nonostante la presenza di artisti di primissima grandezza, la cui fama (o notorietà almeno) è destinata ad essere, nel migliore dei casi, postuma. Pittori ed opere riservate a pochi appassionati, per lo più locali, eppure portatori e portatrici di valori non di rado autentici e ammirevoli, espressi attraverso una pittura sempre di grande qualità, che evidenzia in maniera chiarissima il potere e la varietà di questo linguaggio troppo spesso dato per morto, la sua vivacità e forza. Oggi più che mai.
Estraneo alle vicende personali dei singoli, alle logiche di appartenenza o meno, di gruppi, circoli e “unioni” nati e disfatti su basi spesso più personali e caratteriali che espressive o culturali, il nostro turista non capisce, ad esempio, il “gioco delle parti” che ha trasformato la storia dell’arte reggiana dell’ultimo mezzo secolo in una sorta di lungo racconto storicamente infarcito più di (faziosi e dal “tono intelligente”) aneddoti e luoghi comuni che non dianalisi espressive profonde; una storiografia che appare più coinvolta istintivamente che ricca di quella serenità e obiettivitàf ondamentali per qualunque analisi critica e storica degna didefinirsi tale, e che evidenzia, non di rado riducendosi a cronacapiù o meno velatamente partigiana, faide e gelosie, feroci invidie epersonalismi da strapaese.
Eppure, almeno sulla carta, ogni amministrazione, almeno fino agli anni ’90, si è sempre dichiarata promotrice del genius loci e delle sue produzioni. Dopo le intelligenti intuizioni dell’indimenticato ed indimenticabile Giancarlo Ambrosetti, storico direttore (quello sì degno di tale nome ed incarico!) dei Civici Musei e padre, fra l’altro, dei vari regesti dedicati all’arte reggiana,quella missione sarebbe dovuta essere raccolta da Palazzo Magnani, dai primi anni ’90 il ricco spazio espositivo della Provincia di Reggio Emilia, che fra i suoi obiettivi fondativi annoverava la valorizzazione dell’arte e degli artisti locali, sebbene nei decenni successivi, grazie ad una dirigenza largamente ed evidentemente inadeguata (che oggi, con più ipocrisia che coraggio vorrebbe ergersi a censore del nuovo corso), si sia adoperato a tutto tranne che a quello attraverso una gestione assolutamente personale e personalmente interessata, di fatto tradendo palesemente la sua primaria missione e contribuendo alla damnatio memoriae e la conseguente tabula rasa d’oggi.
Io credo fortemente che un possibile Rinascimento reggiano non posa che passare attraverso un recupero della memoria, dell’identità, dello spirito d’appartenenza e, perché no?, dell’orgoglio reggiani. Specchi nei quali la città ed i suoi abitanti possono conoscersi e ri-conoscersi… Con tutto quello che ne deriva, anche e non solo in sani termini di orgoglio e benessere.
In pratica, nell’immediato:
- Museo del Novecento reggiano e nuovo regesto
- Museo Ghirri
- Museo Ariosto
- Mostra, convegno e centro di documentazione Tirelli
- Mostra, convegno e centro di documentazione Vigarani
- Mostra, convegno e centro di documentazione Panizzi
- Riconoscimento (cittadinanza onoraria?) ai viventi (dopo Amodio a Plessi, Galliani, Parmiggiani, Pizzi, Millenotti, Gallo, Barbacini, ecc) con annessa mostra e giornata di studi/conferenza.
- Revisione totale Officina delle arti (maggiore fruibilità/accessibilità, coinvolgimento dei Maestri per workshop e/o campus estivi europei)
- Riapertura dell’Archivio giovani artisti