Che succede in Iran? Per cinque mesi abbiamo visto le immagini di migliaia di iraniani per le strade di Teheran che gridavano “morte al dittatore” o “morte a Khamenei”, e quelle di donne che si toglievano il velo e lo bruciavano. La protesta era cominciata contro l’obbligo del velo, dopo la morte della giovane curda Mahsa Amini in una caserma della cosiddetta “polizia morale”, , ma si era poi allargata fino ad esprimere un rigetto totale del sistema islamico. All’improvviso invece in questi giorni scorrono sulla tv e sui social immagini molto diverse. Si vedono decine, o forse centiania di migliaia di persone sfilare a Teheran sulle dodici grandi vie che dai diversi quartieri della sterminata metropoli convergono a stella sulla piazza Azadi, la piu grande della capitale (azadì in persiano significa Libertà). Per andare ad applaudire il presidente Ebraihim Raisi.
Il regime si autocelebra. Sono finite le proteste? “Le celebrazioni per il 44esimo anniversario della fondazione della Repubblica islamica si svolgeranno in 1400 città e 38.000 borghi. A Dio piacendo”, ha detto un portavoce governativo. Il regime vuole evidentemente dare una dimostrazione di forza nei confronti dei partecipanti alle manifestazioni e del resto del mondo. Vuol dimostrare che non vacilla, che ha ancora un forte ancoraggio tra la popolazione e che nessuno dunque s’illuda che 44 anni dopo il ritorno dell’ayatollah Khomeini dall’esilio si stia preparando una nuova rivoluzione. Proprio questa era l’aspettativa di molti iraniani, soprattutto tra gli espatriati in Occidente, che appunto parlano già non diproteste ma di rivoluzione.
Alle manifestazioni dell’11 febbraio, la più grande festa della Repubblica Islamica, partecipano da quarant’anni centinaia di migliaia di iraniani. Alcuni perché credono ancora nella rivoluzione che mise fine alla monarchia autoritaria dello scià Pahlevi; altri per motivi religosi perché pensano che un governo islamico sia comunque il miglior governo possibile; moltissimi perché sanno che se restano a casa ne pagheranno le conseguenze, sul posto di lavoro, o comunque al momento in cui per qualsiasi ragione avranno bisogno dello Stato. Ci sono anche quelli che vengono con le famiglie semplicemente perché è una festa, e di feste ce ne sono poche nel regime islamico dove i giorni festivi sono quasi sempre giorni di lutto in ricordo di qualche martire, oppure perché banchetti sparsi lungo le strade distribuiscono gratis bibite e dolciumi che molti non si possono più permettere da quando la Repubblica islamica si trova nella peggior crisi economica della sua storia.
Le sanzioni l’hanno messa in ginocchio e per solidarietà alle proteste di questi mesi gliene sono state comminate ancora di nuove. La moneta è crollata, il costo della vita è salito alle stelle, il lavoro manca e gli affitti mangiano quasi l’80 per cento dei salari per gran parte delle famiglie. Per la prima volta infatti partecipano alle proteste anche gruppi sociali che finora erano sempre rimasti fedeli al regime. L’economia, scrive Ervand Agrahamian, un noto analista, è stata per quarant’anni uno se non il principale pilastro del consenso nella Repubblica Islamica. Non tanto la religione, come spesso si tende a credere, ma i sussidi statali derivanti dalla rendita petrolifera che avevano mantenuto incredibilmente bassi i prezzi degli alimentari di base, della benzina, dell’elettricità e det trasporti.
L’anniversario della rivoluzione ha offerto l’occasione al Leader Supremo di dimostrare clemenza, cercando di bilanciare la ferocia con cui il regime ha risposto alle proteste. Il bilancio degli scontri è fino a oggi di oltre 500 persone uccidse, la polizia ha sparato spesso ad altezza d’uomo munizioni vere. Tra gli uccisi ci sono una settantina di minorenni. Anche una settantina di poliziotti sono morti. Gli arrestati sono stati più di ventimila, decine le condanne a morte dopo processi sommari, e almeno due quelle già eseguite. (Il regime non fornisce dati e questi numeri sono calcolati dalle organizzazioni per i diritti umani). Khamenei dunque ha deciso una grande amnistia: migliaia di detenuti, inclusi molti arrestati nelle manifestazioni, sono usciti dalle carceri – un tentativo di dare una valvola di sfogo alla tensione che si è accumulata nel Paese e riportare la calma.
Ma le proteste proseguono, sebbene meno gente osi scendere per strada. Prendono altre forme. Ogni sera, non appena cala l’oscurità, centinaia di finestre si aprono nei grattacieli della capitale e, senza affacciarsi, migliaia di persone scandiscono “morte al dittatore”, oppure intonano la canzone che è stata fin dall’inizio la colonna sonora delle proteste, baraye, che significa “per”: “Per ballare nei vicoli, per baciarsi senza paura, per la voglia di una vita normale, per mia sorella, per tua sorella, per tutte le nostre sorelle”.
Il regime non ha vinto. Tante donne vanno in giro a capo scoperto, nonostante l’inverno. Da più parti nascono iniziative per chiedere un referendum costituzionale per cambiare lo Stato islamico (un referendum lo si chiedeva anche ai tempi del presidente riformatore Khatami ma a lui mancò il coraggio di portarlo avanti perché temeva la dissoluzione totale della Repubblica islamica e forse era un timore fondato).
A qualsiasi momento dunque le proteste protrebbero infiammarsi di nuovo. Continuano intanto anche per le strade nelle due regioni all’estremo sud est e all’estremo nord ovest del Paese, tra i baluchi e tra i curdi, qui anche per ragioni etniche e religiose (i baluchi sono sunniti e hanno un capo religioso a Zahedan molto ascoltato e molto attivo). La speranza di molti iraniani di un’evoluzione pacifica della Repubblica islamica che portasse a sempre più istituzioni repubblicane e sempre meno istituzioni islamiche è definitivamente tramontata. L’ultima chance era stata la realizzioine dell’accordo nucleare, la cui firma nel 2015 aveva aperto la possibilità di un’uscita dell’Iran dall’isolamento e di una ripresa degli scambi commerciali e culturali col resto del mondo. Ma Trump ruppe l’accordo (che aveva avuto il sigillo delle Nazioni Unite) e l’Europa, pur dissentendo, non ha mai avuto la forza di prendere una strada alternativa a quella americana.