Il racconto: la città che non c’è, il virus dell’overtourism l’ha uccisa

Un apologo sulle orme di Albert Camus

…..ci si accorgeva adesso che il fenomeno, di cui non si poteva ancora precisare l’ampiezza, né svelare l’origine, aveva qualcosa di minaccioso.

Albert Camus, La peste, 1947

Scrivono i sapienti che nella “Tusciae antique typus” di Abraham Ortelius figurava una città che le più minuziose cartografie che si sono susseguite fino ad oggi non hanno più rappresentato. Dalle indagini che si sono protratte fino ai nostri giorni risulta che la sua vita effimera sia dovuta ad una concatenazione di eventi che i ricercatori hanno potuto ricostruire attraverso le memorie degli ultimi sopravvissuti.

Pare si trattasse di una città illustre, distesa su una fertile piana, attraversata da lucenti corsi d’acqua e cinta da imponenti mura. Una città ricca di palazzi sontuosi e di maestosi templi, dotata di prestigiose biblioteche e di inestimabili opere d’arte, cenacolo dei maggiori artisti e letterati del tempo e, soprattutto, meta prediletta di viaggiatori e appassionati cultori provenienti da ogni terra conosciuta, accolti con la più generosa ospitalità da blasonate confraternite, munifici conventi e confortevoli ostelli.  

Dai documenti faticosamente rinvenuti sembra che gli stessi abitanti, e in particolare il popolo minuto, si fossero prestati, oltre ogni limite, a ricevere gli ospiti con la maggiore disposizione d’animo, abbandonando antichi e nobili mestieri e assumendo le più modeste e servili mansioni.

Quelli che erano stati i più abili ed esperti mosaicisti e intarsiatori, lapicidi e fabbri ferrai, intagliatori e stippetai, miniaturisti e argentieri, cuoiai e pellicciai, si dice che servissero nelle taverne come sguatteri e vinaioli o, nelle locande più malfamate, come inservienti e facchini. Non meno modeste apparivano le occupazioni di quelli che si incontravano nelle rivendite di pane come garzoni di mugnaio e, nel migliore dei casi, come stallieri, palafrenieri o mercanti girovaghi, mentre i più ricercati si adoperavano come cocchieri, osti o locandieri.

Sembra che in quella stagione torrida fossero giunte innumerevoli carovane di viaggiatori, originari di paesi remoti, attratti sempre più dalla fama delle ricchezze della città oltre che dalla magnificenza dei magnati e dall’affabilità dei cittadini.

Se i vicoli, le piazze, i porticati, le scalinate, i ponti iniziavano a pullulare di torme di visitatori, gli ostelli, i dormitori, gli ospizi, le locande, per parte loro, rigurgitavano già di forestieri carichi di salmerie d’ogni tipo, bauli, cofani, bisacce, scarselle. Chi, non trovando un giaciglio, si riparava sotto i porticati o si introduceva nelle stalle, nelle cantine e in tutti gli anfratti possibili della città.

Frotte sempre più numerose di giovani provenienti dai collegi e dai monasteri d’oltre alpe si accalcavano davanti alle pinacoteche e ai monumenti né si contavano più le resse intorno alle grandi sculture delle piazze e dei giardini. Chi spingeva, chi gridava, chi chiamava il precettore che tentava a fatica di sottrarsi all’accerchiamento. C’era poi chi si sollazzava a mutilare le più importanti statue, chi sguazzava nell’acqua delle fontane, chi orinava sulle scale della torre di guardia.

Si racconta che la città avesse assunto ormai i caratteri di un grandioso e caotico caravanserraglio.

 Si racconta anche che nel giorno del Corpus Domini fosse trovato sulle scale di una locanda il cadavere di un forestiero. Pareva un viaggiatore d’oriente, aveva gli occhi gialli e le labbra tumefatte. Gli accertamenti successivi attribuirono le cause ad un fatto sanitario e alla cosa non fu data eccessiva importanza. Tuttavia, all’indomani, l’inserviente della locanda avvertiva il Capitano di Giustizia che nel mezzo del corridoio di ingresso giacevano tre corpi di stranieri, ulcerati e sanguinolenti.

Non erano trascorsi tre giorni dall’evento che si rinvenivano altre salme di avventori che avevano trovato un rifugio nel chiostro della grande abbazia lungo le mura. Si parlava di dodici spoglie di gente originaria di terre del nord.

Le voci che si stavano diffondendo ormai in città costituivano  fonte di sconcerto e apprensione che diventò presto sgomento e paura al momento che nella navata sinistra del tempio il priore si imbatteva in una massa di corpi turgidi e agonizzanti. Qualche giorno dopo i morti si contavano a diverse centinaia, sparsi in riva al fiume, nei cortili, nelle bettole, nei vicoli, persino nella piazza delle grandi cerimonie pubbliche.

Nel giorno di San Giacomo a due mesi dal primo rinvenimento la contabilità dei morti aveva superato il migliaio.  Chi parlava apertamente di una invasione di insetti assassini, di febbre di Cipro, di sangue infetto, di idropisia, di mal franzoso; chi sospettava invece una vera e propria epidemia di sudor anglicus trasmesso da mercanti e mercenari della Gallia e gravemente contagioso.

Scoppiarono naturalmente le prime agitazioni, si invocarono misure radicali, si incolparono di inerzia la Signoria e il Consiglio degli Anziani.

Si dice che davanti alle osterie, alle mescite, alle taverne, si stavano già verificando i primi tafferugli tra abitanti e ospiti per assicurarsi una panca e un boccale di vino di Malta. Le zuffe tuttavia cominciarono a diffondersi per dilagare in poco tempo in veri e propri scontri tra cittadini dei paesi d’oltralpe. Ci si contendevano i più diversi medicamenti; dalle pillole di aloe al cardamomo, dalla belladonna allo stramonio, fino al cauterio e al salasso.

A questi miserandi episodi si aggiungeva la crescente intolleranza degli abitanti che si vedevano invadere le proprie contrade e persino estromettere dalle stesse dimore. Un’intolleranza che ormai stava sfociando in un aperto conflitto.

Finalmente gli araldi annunciarono che i morti erano arrivati ad oltre diecimila e che si stavano prendendo tutte le iniziative per affrontare il caso e provvedere alla loro sepoltura in fosse comuni fuori città dopo averli ricoperti di calce viva.

Tuttavia si cercava inutilmente un guaritore, un chiromante, una fattucchiera, uno speziale. Erano scomparsi persino i barellai e i beccamorti.

Accadde così che in poco tempo non esistevano più in città né gli stranieri né gli stessi abitanti che, terrorizzati, erano fuggiti riparando nelle campagne circostanti. Restava soltanto un odore cadaverico, un odore dolciastro di decomposizione e putrefazione, forte e insopportabile.

La città, dunque, era ormai un guscio vuoto, ingombro soltanto di rifiuti d’ogni genere: selciati sommersi di calici rotti, piatti di peltro, vassoi di legno intagliato, canestri di salice, residui di pane farcito, moccichini; lastricati sparsi di mappe cosmografiche, vecchi portolani, astrolabi, bussole, clessidre, bisacce di pelle di capra, astucci in pelle di vaio. Nelle corti si accumulavano catinelle di rame sbalzato, brocche, pitali di porcellana, specchiere, lucerne, dove branchi di ratti guizzavano alla ricerca di scarafaggi, formiche, ragni, cimici, cavallette. Una distesa spaventosa di pattume che il vento di ponente ammassava in cataste sempre più estese ed invasive.

Finchè non si avverò un improvviso e benefico flagello.

Il giorno di San Giovanni Crisostomo l’acqua rompeva gli argini e una rovinosa inondazione invadeva le strade e le piazze trascinando tutto ciò che incontrava, insinuandosi nelle case e nei palazzi, penetrando nelle cantine e nelle soffitte, abbattendo statue e fontane, sommergendo templi e monasteri, devastando archivi e biblioteche, distruggendo codici, pergamene, manoscritti, incunaboli, cimeli, riducendola infine ad una conchiglia che il lebeccio e lo sirocco sabbioso avrebbero costantemente corroso fino a ridurla in fine polvere.

Così almeno i sapienti credevano, lungi dall’immaginare che abitanti superstiti, nascosti nel buio delle rovine urbane tornassero alla luce  preparandosi a riedificare la città più grandiosa che mai.  

Verso la quale orde sempre più folte di viandanti, pellegrini e viaggiatori delle varie parti del globo terrestre stavano già incamminandosi.

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