Il Ponte dello Stretto, un nuovo ruolo per le grandi infrastrutture

La controversia insanabile a scapito dello sviluppo del Meridione

Narra Strabone che il primo a sperimentare l’attraversamento dello Stretto di Messina con un ponte di botti vuote fu il console romano Lucio Cecilio Metello nel 250 prima di Cristo. Si trattò del più antico di una lunga serie di tentativi aerei e sottomarini, tutti falliti, che si sono successi per secoli. Così ancora oggi parliamo, resuscitandolo di tanto in tanto, del Ponte sullo Stretto. Oltre che un “serpent de mer”, il ponte è diventato un luogo paradigmatico della discussione sul sistema infrastrutturale italiano e nello specifico del Mezzogiorno.

Da sempre divisivo per l’estrema varietà di formule escogitate per la sua realizzazione, in epoche più vicine alla nostra il tema del ponte ha cominciato a dividere forsennatamente il campo fra favorevoli e contrari che si scontrano con grande acrimonia e tuttora attraversa trasversalmente il campo politico e sociale, trovando seguaci e nemici su tutte le sponde. A questo punto immersi come siamo in una controversia insanabile non è facile comprendere se si tratti di un grande obiettivo da perseguire a tutti i costi oppure se vada ormai chiuso nello stanzino delle occasioni perdute. In entrambi i casi si tratta di un passaggio paradigmatico ed emblematico della storia infrastrutturale italiana.

Più volte nel corso del tempo si sono succeduti progetti, poi persi per strada. Da quello ottocentesco dell’ingegnere napoletano Alfredo Cottrau, che non riuscì a risolvere il problema della fondazione della base del ponte, troppo difficile per le forti correnti marine; ai fantasiosi tunnel e ponti di barche, che uscirono dalla penna di altri progettisti fino all’instaurazione di un primo servizio regolare di attraversamento nel 1899. Il terribile terremoto fece dimenticare l’idea, che Mussolini riprese con fini di egemonia mediterranea. Con gli anni Cinquanta la questione tornò all’ordine del giorno con l’inaugurazione del sistema dell’intervento straordinario nel sud e la costituzione nel 1955 del Gruppo Ponte di Messina, che comprendeva numerose imprese private italiane, fra cui la Fiat, pronte a realizzare il fatidico collegamento.

La svolta avveniva nel 1971 con la legge, che definiva il ponte opera di “prevalente interesse nazionale”, senza però riuscire a fornire la spinta concreta necessaria. Nel decennio successivo finalmente veniva stabilita la fattibilità dell’opera e si moltiplicarono studi alternativi, che finirono per provocare ritardi infiniti. Col nuovo secolo si impose definitivamente l’idea di un partenariato pubblico-privato e fu la retorica delle grandi opere lanciata da Berlusconi a ridare allo slancio al progetto, però affossato più volte, anche per la crescente insofferenza nei riguardi delle grandi opere esplosa con il caso delle proteste No-Tav.

Il tema offre la possibilità di considerare a fondo il ruolo, che conviene affidare oggi alle grandi opere, di cui occorre però valutare con la massima attenzione la congruità e la praticabilità in un contesto non soltanto locale, bensì nazionale e oltre, tenuto conto dell’ottica dell’integrazione europea. Che il contesto infrastrutturale italiano appaia oggi bisognoso di interventi correttivi, anche radicali, soprattutto al fine di garantire una migliore qualità dei servizi, è un dato di fatto indiscutibile. La direzione obbligata risulta un migliore coordinamento organizzativo e di gestione delle reti di trasporto esistenti al fine di ottenere la massima flessibilità e funzionalità. Aumentare la dotazione infrastrutturale può risultare una scelta di progresso, come l’implementazione dell’Alta Velocità dimostra, ma occorre anche non trascurare il bisogno di una trasformazione equilibrata del territorio.

All’interno di una riflessione del genere assume particolare rilievo la questione dello squilibrio fra nord e sud e delle aree territoriali arretrate in termini di linee di comunicazione, dove invece che una vera e propria strategia si sono tradizionalmente scelti interventi a pioggia, che davano luogo a singole acquisizioni inevitabilmente disorganiche. Non configurandosi in termini di sistema integrato e articolato, la rete del sud italiano soffre di antiche strozzature e frequenti fratture territoriali che aggravano gli squilibri interni e la disarticolazione del territorio, emarginando vaste aree dell’economia di scambio.

I difetti storici riscontrati nella realizzazione della rete infrastrutturale italiana si sono riverberati in maniera drammatica sul meridione del paese, provocando distorsioni che decenni di interventi non sono riusciti a sanare. L’isolamento geografico e la mancanza di vie di comunicazione sono una costante che accompagna il Meridione e la Sicilia fin dall’epoca unitaria, momento cardine per la costruzione della rete di infrastrutture vera colonna vertebrale per il nuovo Stato: la rete ferroviaria non è sostanzialmente migliorata e poco hanno fatto le autostrade per cancellare lo squilibrio.

La vicenda è esemplare anche dal punto di vista dell’assenza di lungimiranza nelle politiche di promozione dello sviluppo, di frammentazione e inefficienza del processo decisionale pubblico, di deleteri conflitti tra imprese pubbliche, di interessi privati poco autonomi dalla capacità di spesa pubblica, di veti ideologici ostinati come quelli delle lobbies conservatrici, per finire con le esagerate timidezze e le nocive cautele politiche. A tutto questo vanno aggiunti i rigidi vincoli di bilancio imposti dalle politiche restrittive dei primi anni ’90, altro elemento che certo non favorì il buon esito della vicenda, paralizzando la decisione finale e rimandandola sine die.

La pluralità di soggetti e di centri di decisione si è rivelata, in ultima analisi, la causa del ripetersi dei numerosi veti espressi. Indubbiamente, sui tempi lunghi dell’attraversamento hanno pesato l’obiettivo della sicurezza fisica in un’area sismica, ventosa e caratterizzata da forti correnti marine; inoltre, va da sé che un ponte di oltre tre chilometri ad una sola campata rappresenti un’opera estremamente impegnativa. Ma la lunghezza del tempo trascorso ha evidenziato soprattutto l’indecisione piuttosto che il rigoroso maturare di una scelta. Alle preoccupazioni si è associata l’ostilità reciproca fra le contrapposte fazioni, gli interessi economici, la mancanza di strategia logistica, i conflitti tra le stesse imprese pubbliche interessate a diverse tipologie di collegamento. Eppure, in altre parti del mondo sono stati realizzati in tempi rapidi molte opere simili pienamente di successo.

Così ogni volta che il ponte sullo Stretto riappare ricomincia la guerra sfibrante, il cui esito è il protrarsi della questione che produce un generalizzato ampio scetticismo accresciuto dalla consapevolezza di un elevato spreco finanziario ritenuto giustamente inaccettabile. Nel frattempo, la questione ambientale è diventata dirimente; alle posizioni estreme di un ecologismo intransigente, cui si salda l’opposizione dei gestori del servizio di traghettamento, si oppongono logiche costruttive affaristiche e generici richiami a ideologie di cambiamento a tutti i costi. Siamo di nuovo allo stallo, com’è avvenuto svariate volte nell’ultimo mezzo secolo e un quadro di sviluppo organico ancora non si scorge all’orizzonte e anche se venisse deciso di varare per l’ennesima volta l’opera, occorrerebbero studi e progetti nuovi ricominciando in pratica da zero. Un vero “serpent de mer”.

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