“Non è stato un voto di protesta, ma di cambiamento”, ha appena detto Matteo Renzi. Le due valutazioni peraltro non sono in contraddizione: si protesta perché si vuole un cambiamento; si vuole cambiare perché non piace la situazione precedente. Io mi limito a osservare che non si tornerà indietro, chi ha votato in un certo modo lo ha voluto fare e non è vero che può essersi pentito: le esperienze passate ce lo confermano. E, dunque, chi pensa che se il Pd si fosse collocato un po’ più a sinistra o un po’ più a destra avrebbe vinto, metta il cuore in pace: è cambiato lo stato d’animo dei cittadini, la loro mobilità elettorale, il loro abbandono di ogni senso di appartenenza ideologica. Sarà bene che nella Direzione nazionale Pd del 24 giugno lo si consideri.
Ci possono essere macro-questioni specifiche nei risultati di Roma e di Torino su cui meriterà soffermarsi. Ad esempio, sin dall’inizio della campagna di Roma mi è capitato di osservare con Giacchetti che non riuscivo a capacitarmi del fatto che tutta la grande indignazione per lo scandalo di mafia-capitale si scaricasse solo sul Pd mentre veniva graziato l’arcipelago delle destre, pur essendo stato quello scandalo incubato e costruito sotto la gestione Alemanno. Forse andava denunciato nettamente da parte Pd. Fermo restando che verso questo partito si è ripetuto l’atteggiamento che l’elettorato manifestò nei confronti della Dc al tempo di tangentopoli: vi sono forze politiche, infatti, che avendo dichiarato nel proprio Dna l’esigenza etica, quando la contraddicono – non importa la misura – non vengono assolutamente perdonate, mentre verso altre vi è maggiore tolleranza.
La questione morale è cosa ben più ampia e seria della questione delle indennità parlamentari, dovremmo sempre saperlo. A Torino, invece, a me pare che sia prevalsa la volontà di spezzare il circuito di un establishment che da troppi anni controlla la città e noi, senza sottovalutare i grandi meriti di Fassino, siamo vissuti come parte di tale sistema. Il caso o l’intelligenza dei nostri avversari ha messo in campo una candidata di una certa qualità (un amico che la conosce bene me l’ha definita una “democristiana” di qualità: si vedrà) e ciò ha concorso a determinare quel risultato. In entrambe queste metropoli poi abbiamo assistito (basta esaminare il voto di zona) a una vera e propria esplosione di rabbia popolare.
La condizione reale della vita delle persone sta tornando un motore politico di straordinaria forza. Conclusione: la politica, in particolare la politica del Pd, deve tornare a incarnarsi maggiormente nella realtà, deve cercare di conoscerla prima di ogni altra cosa, deve spiegare le proprie scelte difficili con parole umili e convincenti, trasmettendo la sofferenza per non riuscire a soddisfare le esigenze più gravi e urgenti assicurando che le stesse continueranno a rappresentare il proprio assillo. Meno circolano ideologie e fedi religiose, più c’è necessità di calore umano anche nel linguaggio politico.
E infine: è necessario dedicarsi sistematicamente alla coltivazione di una militanza politica personalmente disinteressata e capace di tenere l’orecchio a terra. Per non avere sorprese, almeno. Per fare questo non è necessario separare il doppio incarico, anzi!, è necessario avere un progetto preciso al riguardo. E fede.