Carcere, il paradosso dei suicidi al termine della pena

Il rientro nella vita esterna si trasforma in un pericoloso ostacolo psicologico

Nel 2022 si sono tolti la vita 85 detenuti. Secondo un’analisi del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, pubblicata a inizio dicembre, quando i suicidi erano 79, il 6 per cento dei suicidi riguarda le donne, che sono circa il 4 per cento della popolazione carceraria. Il 60 per cento dei suicidi in carcere ha riguardato persone con nazionalità italiana e nel 40 per cento di nazionalità straniera (gli stranieri sono circa il 40 per cento dei detenuti). I suicidi sono avvenuti in 55 carceri su un totale di circa 190 istituti. Il numero maggiore è stato registrato a Foggia (cinque eventi suicidari), seguita dal carcere di Torino, Milano San Vittore e Firenze Sollicciano, con quattro suicidi.

Il ministro di giustizia, Carlo Nordio, durante il suo intervento al Senato di giovedì scorso, ha detto che molti eventi hanno riguardato casi di persone che stavano per essere liberate. E ha affermato: “Tutto questo non è psicologicamente molto spiegabile”.

Carlo Nordio è un liberale. La sua formazione giuridica è classica, nel senso di Scuola classica del diritto penale, per la quale il garantismo, inteso qui come tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti, termina alle porte di un carcere: l‘esecuzione penale non fa parte dell’interesse teorico di un liberale, la pena per lui è retributiva e proporzionale, il senso della pena è rappresentato dal ravvedimento individuale e il garantismo si esprime soltanto nella fase delle indagini e del processo. È sufficiente scorrere gli interventi in assemblea costituente per l’approvazione dell’art. 27 per comprendere il serrato confronto tra le diverse impostazioni sulla funzione della pena, che portò alla stesura compromissoria di quell’articolo della Costituzione.

Però, per tornare all’enigma di Nordio sui suicidi al limite dell’espiazione, basterebbe leggere un testo classico del 1961: Asylums di Ervin Goffman. Siamo all’alba degli studi sulle istituzioni totali e per Goffman l’adattamento alla vita carceraria comporta una progressiva diminuzione della capacità dell’individuo di maneggiare le tipiche situazioni della vita esterna. L’identificazione con la vita penitenziaria porta il detenuto ad abbracciare la subcultura carceraria, a tal punto di avviare un processo di degradazione irreversibile. Una sorta di colonizzazione che è direttamente proporzionale alla lunghezza della pena da scontare.

Per molti detenuti vicini al fine pena, il rientro nella vita esterna si trasforma in un pericoloso ostacolo psicologico, un passaggio difficile da superare. Per una piccola minoranza di essi si arriva a preferire il suicidio. La paradossale tragedia del senso della pena: il ritorno alla libertà terrorizza più dello squallore della vita carceraria.

Per questa ragione sono sempre più convinto del fatto che il primo problema da affrontare è proprio quello della funzione dell’esecuzione penale, fermo ormai a una concezione antica e fallimentare, lontana dai principi di utilità sociale della pena. Si capisce che il ministro Nordio è interessato ad affrontare anche questo problema. E la sua maggioranza? E l’opposizione?

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